Scrivo da uomo, il che è sempre difficile quando si tratta di ricorrenze che riguardano l’universo femminile. È difficile perché, per parlare della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, bisogna innanzitutto abbattere muri e steccati, il che ci costringe a mettere in discussione noi stessi e i nostri privilegi. Bisogna, in poche parole, entrare nell’ordine di idee che questa ricorrenza ci riguarda tutte e tutti, poiché non si tratta solo di contrastare un fenomeno odioso ma di cambiare le lenti con cui osserviamo il mondo, ponendoci nei panni delle nostre sorelle sfruttate, picchiate o, peggio ancora, assassinate ed evitando la compassione stucchevole che spesso accompagna la nostra narrazione.
I femminicidi in Italia sono in diminuzione ma sono ancora troppi. Anche uno sarà sempre troppo. Le denunce, invece, sono in aumento ma non è di repressione che voglio occuparmi bensì di coscienza civica diffusa. E il messaggio che mi sento di inviare a tutte le donne, nel mio piccolo, è quello di non aver paura. Affinché la violenza diminuisca è indispensabile prendersi per mano. Affinché una ragazza smetta di avere il terrore di camminare da sola per strada la sera, non si può prescindere dalla cultura dell’incontro. Affinché gli uomini comprendano il senso di un rifiuto e imparino ad accettarlo senza sfogare i propri istinti ferini contro il corpo femminile, è necessario introdurre l’educazione all’affettività e l’educazione sessuale nelle scuole. Se non torneremo a ragionare in positivo, infatti, faremo sempre il gioco di questa destra machista, che punta tutto sull’inasprimento delle pene non avendo un’idea di società, una visione del mondo e un pensiero della crisi che attanaglia il Paese in ogni ambito.
Se avessi una compagna o una sorella, il 25 novembre e non solo, tutto l’anno, le direi: “Io sono qui, guardiamoci negli occhi”. Perché è di di sguardi d’amore che abbiamo bisogno per combattere l’odio. È di affetto vero che abbiamo bisogno per superare le incomprensioni e le violenze che ne conseguono. È di gentilezza che dobbiamo nutrirci per sconfiggere l’incultura della competizione e della furia che imperversa in tutto l’Occidente ormai da quattro decenni, rendendoci ogni giorno più soli e più fragili. Ed è di comunità che abbiamo bisogno per liberarci dal timore dell’altro, sentimento comprensibile ma al contempo alla base di tutti i razzismi, i fascismi e le devastazioni sociali cui stiamo assistendo.
Vorrei, dunque, che ci fossero in giro uomini capaci di dire a una donna che non può avere figli: “Non ti amo di meno, ma di più. E riverserò su di te le parole più dolci e i sentimenti più belli. L’infertilità, per me, non è una sconfitta perché tu sei un’anima assai prima che un corpo, una persona assai prima che un utero e, soprattutto, non sei mia ma tua, appartieni a te stessa e mi hai fatto l’onore di voler condividere con me la tua esistenza”.
Vorrei meno ipocrisia, più collaborazione, la capacità di prendersi reciprocamente cura l’uno dell’altra, il che dovrebbe essere sancito anche da un adeguato apparato legislativo (dal congedo parentale paritario ad altre riforme non più rinviabili) ma, più che mai, dovrebbe nascere dal grembo della società.
Vorrei, infine, che lunedì venisse allestito un pannello in ogni città, dove ciascuna e ciascuno potessero scrivere una frase in ricordo delle vittime o un messaggio per il futuro, affinché il “mai più” che ogni anno ci ripetiamo potesse compiere un passo avanti, restando lì almeno per qualche giorno come una pietra d’inciampo sulla quale riflettere e di fronte alla quale andare a portare un fiore.
Il 25 novembre, come il 25 aprile, difatti, per avere un senso dev’essere, come detto, tutto l’anno. Dopodomani, invece, leggeremo come sempre tanti proclami, poi i riflettori si spegneranno e la barbarie andrà avanti. Ecco, da uomo, vorrei dire a tante donne che almeno io, come posso, non intendo prendere in giro nessuna e nessuno. Non dirò, pertanto, “mai più” ma resterò in silenzio, ascoltando, ragionando e scorrendo i nomi e i volti di questa interminabile Spoon River dell’abisso. Porterò con me questo senso di sconfitta e il desiderio di porvi rimedio. Non prometto nulla, ribadisco, se non di essere più gentile, più attento, più partecipe, più solidale, più vero. Perché “il problema degli altri è uguale al mio” e “sortirne insieme è politica”. E la politica è un fatto d’amore, così come l’amore è un fatto politico. “I care”, per citare ancora don Milani. La tua gioia, cara sorella, cara compagna, mi riguarda, così come il tuo dolore. E l’indifferenza non mi è mai appartenuta e non mi apparterrà mai, ma se non ho fatto abbastanza, e sicuramente è così, ti chiedo concretamente scusa. Con umiltà, con partecipazione, cercando di darti voce ogni volta che posso e ringraziandoti per tutte le volte che, in qualunque modo, anche solo con un sorriso, mi hai reso migliore.