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Netanyahu e Gallant: il peso politico del mandato di arresto

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Hanno il peso politico di macigni i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant (destituito ad inizio novembre) e del capo del braccio armato di Hamas Mohammad Deif, ucciso nello scorso luglio -secondo Tel Aviv – in un attacco nel sud della Striscia, notizia invece smentita da Hamas. Non sono stati resi noti i particolari delle accuse perché i mandati di arresto sono stati segretati per proteggere i testimoni e facilitare le indagini.

Il capo di Hamas è ritenuto colpevole di torture, sterminio, rapimenti, stupri, trattamento crudele, oltraggio alla dignità personale degli ostaggi. La Cpi lo ritiene il diretto responsabile della condotta dei suoi sottoposti armati.

L’iniziativa della Cpi è partita lo scorso maggio ed a distanza di mesi si riconferma un ulteriore segnale forte, chiaro e inequivocabile di puntare i riflettori sui crimini ancora in corso dopo un anno di guerra. Questa prima iniziativa potrebbe anche costituire l’antefatto di una più grave accusa di genocidio poiché – come spiegano gli esperti – i crimini di guerra contestati costituiscono l’anello di congiunzione con il genocidio: creare volontariamente condizioni di vita impossibili per la sopravvivenza della popolazione civile (taglio di acqua ed energia elettrica, stop alla distribuzione di cibo ed all’accesso ad ospedali per le cure, trasferimento forzato dei residenti) sono tutte condotte che configurano il reato di genocidio.

È questo il vero tallone d’Achille di Netanyahu, come ha già dimostrato pochi giorni fa la scomposta reazione all’invito di papa Francesco a riflettere sul “possibile genocidio” contenuto nel suo libro in uscita “La speranza non delude mai”.

Netanyahu si ritiene ingiustamente perseguitato, evocando “un nuovo processo Dreyfus” e bollando la Cpi come “antisemita”, epiteto che nelle polemiche dei giorni scorsi è stato rivolto anche a papa Francesco. Meglio ancora ha fatto Gideon Saar, ministro degli Esteri israeliano, che ha affermato: “Con questi assurdi mandati di arresto la Cpi ha perso ogni legittimità… perché non è altro che un giocattolo politico al servizio degli estremisti che vogliono minare la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente”.

L’evidente timore del primo ministro è che intorno alle sue scelte militari si espanda e consolidi un isolamento politico che lo condannerebbe di fronte alla storia.

I mandati di arresto non ci restituiranno Netanyahu, Gallant e Deif in ceppi. Formalmente le 120 nazioni che aderiscono allo Statuto di Roma hanno l’obbligo di arrestare i 3 esponenti nel caso di transito o permanenza sui propri territori ma è ormai prassi consolidata invocare l’immunità dei governi in carica per evitare di eseguirli. Recentemente Putin ha visitato la Mongolia (paese che aderisce allo statuto) senza conseguenze. Così come avvenne in passato per Robert Mugabe, presidente-dittatore dello Zimbabwe, definita “persona non grata ma che almeno 3 volte è venuto a Roma senza conseguenze. Senza dimenticare che Omar al-Bashir, ex dittatore del Sudan, ha girato per anni l’Africa in lungo ed in largo senza conseguenze al riparo dell’immunità di governo in carica.

Troppo spesso la  Corte Penale Internazionale dell’Aja è stata accusata di essere al servizio dei potenti mettendo sotto osservazione solo dittatori e regimi “perdenti” di paesi “ai confini del mondo”: polemiche che hanno indotto alcune nazioni africane a proporre di dar vita ad analoghi organismi su base continentale proprio per sottrarsi alla “schiavitù” dei paesi ricchi che mettono sul banco degli imputati solo esponenti di governi dei paesi poveri.

Questa volta la Corte Penale Internazionale sembra tentare “l’assalto al cielo”.

 


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