Milei e Meloni in vetrina alla Rosada

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Il marketing permea la nostra esistenza quotidiana. Certo, non è una novità. La pubblicità è l’anima del commercio, si diceva più prosaicamente fin dall’alba del consumismo come costume di vita. E sappiamo bene che la propaganda è stata da sempre connaturata alla politica. Ormai, però, sempre più spesso, direttamente la sostituisce. E’ la prima considerazione che viene alla mente con la notizia dell’incontro a Buenos Aires tra il presidente argentino Javier Milei e il primo ministro italiano Giorgia Meloni. Entrambi sulla via del ritorno da Rio de Janeiro, dove hanno partecipato al movimentato vertice del G20, appena concluso con numerosi e lodevoli impegni per frenare il deterioramento della vita umana sul nostro pianeta. Ma non minori perplessità sulla loro futura e concreta attuazione, a causa delle ambiguità di non poche adesioni (quella di Milei per sua stessa ammissione). Le risoluzioni del potentissimo gruppo dei 20 non hanno infatti alcun potere legislativo.

 

Gli abbracci sulla ribalta della Casa Rosada e i brindisi nella cena alla residenza presidenziale di Olivos tra i due leaders e rispettivi accompagnanti sono stati infatti cortesi gentilezze tra diversi, spesso opposti, tenuti uno accanto all’altro essenzialmente da convergenti ma effimeri interessi del momento. Come coniugare altrimenti in una comune prospettiva il dirigismo del capo di governo italiano (ancorchè al momento mitigato dalla realtà economico-finanziaria) con la reiterata negazione dello stato di quello argentino, i suoi conclamati messianismo e subordinazione agli Stati Uniti con il tradizionalismo nazional-conservatore di Giorgia Meloni. Riecheggiando alla lontana Trump e Musk, Milei ha invitato l’ospite italiana a combattere contro il virus woke, per il libero commercio, la difesa della proprietà privata, della vita e della famiglia… “per i valori che furono forgiati nell’antica Roma”. Il capo di stato argentino non sa resistere al fascino dei richiami retorici che al suo orecchio approssimativo suonano classici. Più sobria (e lucida) Meloni non l’ha contraddetto, non lasciandosi però neppure troppo coinvolgere dall’enfasi e ancor meno di lei il ministro Giorgetti che l’accompagnava.

All’offerta di una “alleanza di libere nazioni”, la nostra presidente del Consiglio ha replicato con un misurato richiamo alle “nostre nazioni sorelle”. Sorvolando -cosi come il suo anfitrione- sul fatto che dopo vent’anni di trattative e altri 4 a trattative concluse, cotanti vincoli di sangue non sono stati sufficienti neppure a portare in Parlamento per la sua eventuale ratifica il trattato commerciale Unione Europea-Mercosur. Né sono state anche soltanto previste altre forme di collaborazione economica diretta. Una trascuratezza che coinvolge più o meno tutti i governi italiani ed europei dell’epoca (di ciò è andato a parlare nei giorni scorsi anche Macron, ma per ribadire la sua pregiudiziale in difesa degli interessi agricoli francesi) e solo per ultimo questo di Meloni. Con l’attenuante delle drammatiche condizioni socio-economiche in cui è scivolata e infine precipitata l’Argentina prima con il governo conservatore di Mauricio Macri e poi con quello peronista di Alberto Fernandez e Cristina Kirchner. Tuttavia parziale, in quanto nei loro rapporti con l’America Latina, in buona sostanza l’Italia e l’Europa non riescono a andare oltre una pura e semplice visione esportatrice dei rispettivi surplus industriali.

Oltre a un’allergia per i giornalisti che Meloni almeno per quanto può contiene evitandoli (Milei li cita in continuazione chiamandoli perfino “delinquenti con il registratore incorporato”), i due governanti condividono l’assidua dedizione alle relazioni internazionali. Fuori casa entrambi sembrano sentirsi più a loro agio e comunque al riparo dai problemi interni dei rispettivi paesi, dalla realtà concreta e immediata, ineludibile. Che nel caso del capo di stato argentino è condizionata dall’eredità di una drammaticissima crisi economica, da lui affrontata però esclusivamente  sul piano finanziario e con una brutale recessione. A pagare il freno posto all’inflazione e al rischio paese che paralizzava e continua a paralizzare tutt’ora ogni accenno di ripresa produttiva, sono la maggioranza degli argentini, i più necessitati, quelli a reddito fisso, lavoratori dipendenti e pensionati, vittime della svalutazione e della caduta della capacità d’acquisto. L’ Indec -l’ISTAT argentino- ha certificato per i primi sei mesi di questo 2024 il record della povertà nel grande paese sudamericano. Per la prima volta negli ultimi vent’anni, la maggioranza assoluta dei 47 milioni di argentini sono poveri o -peggio- in miseria.


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