Noi pensavamo di affidarci ai semi dei cachi, per sapere chi vincerà tra due giorni le elezioni americane. Gli esperti di politica statunitense no, ma chi conosce le leggende contadine sa che dividendo in due il seme di un caco potete vedere raffigurata al suo interno l’immagine di una posata: un cucchiaio, un coltello o una forchetta. E a seconda di cosa si trova nel seme inciso si può prevedere che inverno sarà. Ecco, a ridosso del 5 novembre, che sarà poi l’ultimo giorno di queste elezioni americane così incerte e cruciali anche per l’Europa, saremmo disposti ad affidarci a combinazioni casuali come forchetta = Trump, cucchiaio = Harris, coltello = non lo so, imprevisti di ogni tipo, qualcosa di “unusual”, di “crazy”, i termini che erano stati usati per la sfida Trump –Clinton del 2016.
Quanto mi sembra più rassicurante, allora, piuttosto che incidere semi di frutta autunnale, cercare di capire non chi ma perché vincerà chi vincerà il 5 novembre, e rifugiarmi nella storia, scoprire che anche l’antica città di Pompei aveva i suoi “grandi elettori”, scoprire che anche i pompeiani facevano una propaganda elettorale a volte molto costosa, turbolenta, dai torni alti, politicamente scorretta, scandita da spot.
A Pompei si votava ogni anno per quelle che potremmo chiamare le amministrative. Votava un numero ristretto di pompeiani, liberi e di sesso maschile, e si votavano i duoviri giusdicenti, un po’ sindaci e un po’ giudici civili, oltre che due edili, in pratica gli assessori. Mi fa sorridere che a parte l’aggettivo libero anche nelle elezioni americane si impazzisca nel distinguere i votanti: le donne, quelle più giovani, quelle meno giovani invitate a tradire il marito nel segreto dell’urna, i maschi bianchi, i latinos, i nativi americani, i colletti blu, la comunità black. Gli elettori a Pompei erano raggruppati in cinque circoscrizioni elettorali; per vincere occorreva il successo nella maggioranza di esse, e quindi il candidato (chiamato così perché indossava una toga candida che lo rendeva riconoscibile ai concittadini) doveva avere elettori ben distribuiti nelle varie sezioni territoriali, magari anche grazie ad alleanze fra i candidati. Quanto mi sembrano contorti e tortuosi uguali fin qui i sistemi elettorali pompeiano e americano!
Tutto iniziava a marzo quando una specie di Consiglio comunale, l’Ordo decurionum, formato dagli ex magistrati, designava i candidati. E quindi cominciava la vera e propria campagna elettorale, a volte davvero accesa. Su questo abbiamo informazioni grazie alle iscrizioni sopravvissute a Pompei nei punti strategici della città, in particolare sulla facciata delle case. Di solito in grande rilievo compariva il nome del candidato seguito dalla carica a cui aspirava e poi dall’invito a votarlo (oro vos faciatis). Compariva pure il nome dei rogatores, chi ne chiedeva l’elezione. Si ricercava ovviamente il sostegno dei grandi elettori, che “manovravano” diversi voti, puntando anche su alleanze concepite nell’arco di più anni, per scambiarsi poi in un certo senso il favore. Rimangono iscrizioni che sono manifesti elettorali per così dire ad personam: “Oh Valente, porta Popidio Ampliato, figlio di Lucio, all’edilità. A suo tempo anche lui ti sostenne”. Era un classico, infatti, a Pompei, far eleggere chi ti aveva fatto eleggere. E sotto il Vesuvio erano di fondamentale importanza i vicini, in latino gli abitanti della stessa zona. A volte venivano fatti oggetto di contropropaganda loro, per colpire il candidato. Come quando scrissero che per un certo Cerrinius Vatia si erano schierati i morti di sonno (dormientes), i ladruncoli (furunculi), gli ubriaconi notturni (seribibi), gli assassini prezzolati (sicari), gli schiavi fuggitivi (drapetae).
Mi affascina che a Pompei gli elettori ideali fossero quelli appartenenti alla potente corporazione dei panettieri (pistores). E un complimento che poteva portare fortuna al candidato, ma al tempo stesso andava fatto con cura perché poteva pure risultare troppo ammiccante, era “offre buon pane”, bonum panem fert. L’offesa poteva dunque passare da qui, dal mondo dei panificatori!, nelle elezioni pompeiane. Invece gli insulti più gustosi che si sono scambiati Trump e Harris? Lui ha detto di lei: “Questa donna è pazza”, “Sei la peggiore di sempre”, “ha dato risposte da manicomio”, “ è una persona non intelligente, con un basso quoziente intellettivo”, “deve andare all’inferno”, “ beve, assume droghe”. Lei ha detto di lui: “sono convinta che Trump sia un fascista”, “meschino dittatore”, “pronta a sfidarlo a un test cognitivo”, “instabile e squilibrato”.
Ma nell’attesa del 5 novembre io torno al 79 d. E se degli insulti che si sono scambiati i due candidati alla Casa bianca per me impareggiabile resta il trumpiano “gattara senza figli”, quello che preferisco di una antichissima campagna elettorale a Pompei è il seguente: “Caio Giulio Polibio a duoviro. Lo chiede Cuculla”. Solo che questa Cuculla che dà il suo endorsement squisitamente americano ha un nome parlante, che il candidato cercò subito di far cancellare nottetempo dal muro. Cucullus sta per cappuccio e ha a che fare col mondo della prostituzione. Probabilmente la firmataria era una donna dai facili costumi che rischiava di trascinare con sé nella rovina il povero Polibio. Storia pompeiana già sentita.