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L’avventura di padre Paolo Dall’Oglio nel docufilm di Segatori

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Tra gli stereotipi sui romani, fondati, c’è quello del cinismo rassegnato. Infatti, abituati da secoli a rapportarsi ad un potere spesso cinico nei loro confronti, lo sarebbero diventati anche loro, e così nulla più li sorprenderebbe. In parte sarà vero, ma questi romani, questi cinici, non dimenticano, neanche dopo undici anni di silenzio impenetrabile. E così ieri, quando il regista e produttore cinematografico Fabio Segatori ha presentato in anteprima a Roma il suo docufilm “Padre Dall’Oglio”, ha scoperto che la corsa a cambiare la sala prenotata presso il cinema Adriano per l’eccessivo numero di richieste di presenza e prenderne una più grande, era stata una scelta saggia, ma troppo “prudente”; c’erano ancora altre persone da accomodare. I romani così, ancora prima che cominciasse l’anteprima mattutina, un po’ in ritardo per la difficile necessità di sistemare anche i soggiunti, hanno dimostrato la loro sintonia con un uomo, un gesuita, un missionario e in primo luogo un romano che tutto era fuorché un cinico rassegnato. E che nel giorno di questa anteprima compie (compirebbe) settant’anni.

Grazie alla coproduzione Rai, che trasmetterà venerdì prossimo alle 16,10 su RaiTre la sua opera, Fabio Segatori ha avuto accesso a materiale d’archivio che fa di Dall’Oglio stesso una sorta di voce che accompagna lo spettatore nella ricostruzione del centro della sua vita e del documentario, Mar Musa. E’ il monastero di Mar Musa, cioè di San Mosé, San Mosè l’Abissino, che Dall’Oglio scoprì in rovina, abbandonato da lunghissimo tempo, e del quale si innamorò. La ricostruzione con l’aiuto di amici e di sostegni vari e non facili è durata anni, e soprattutto è riuscita e il film ne spiega il senso, che poi è il senso della vita di questo romano, poi gesuita, determinatosi ben prima della caduta del muro a impegnarsi su quella che per lui sarebbe stata la frontiera del domani, dopo la fine che presagiva della guerra fredda; la frontiera del dialogo islamo-cristiano. La storia di questa impresa, fare di quell’antico monastero in rovina da secoli il cuore di una Comunità dedita all’amicizia islamo-cristiana, è la storia di un lavoro quantomeno ardito che ha saputo popolare quel dialogo anche di buon vicinato tra popolazione del posto, in larga parte musulmana, e viaggiatori principalmente occidentali ma di ogni tipo: giovani attratti dal deserto, europei sedotti dall’Oriente, ex-qualcosa ora sbandati, turisti eccentrici, figli del tempo passato che non vogliono lasciar svanire, curiosi del tempo nuovo che vogliono orientare verso la complessità, delusi alla ricerca di sé, disillusi alla ricerca di altro, credenti alla ricerca di una migliore comprensione di ciò in cui credono o miscredenti bisognosi di scoprire in cosa poi non credano, e quindi della possibilità di essere incantati di nuovo. Ma ci sono anche fuggiaschi, perseguitati che finalmente respirano, ed altro ancora. Tutti questi mondi nel corso di un trentennio si sono incontrati e incrociati a Mar Musa. Gian Maria Piccinelli, l’amico di padre Paolo che tra i primi lo ha aiutato a rendere transitabile la terrazza, quasi stabile un pezzo di tetto, a svuotare di detriti il pozzo, riassume quegli anni di impegno manuale con Paolo e poi con tanti altri dicendo che per lui il dialogo è questo, “spostare pietre”, per rendere possibile il transito ad altri. A tutto questo però si arriva dopo il racconto degli esordi nella vita del giovane romano che poi sarebbe giunto a scegliere di fare sua questa scommessa.
Il film di Fabio Segatori riesce nell’impresa di raccontare la vita del giovane che dal lavoro nelle borgate romane arriva alla vocazione, alla scelta dell’Oriente, dell’islam, della frontiera sulla quale vivere la sua vita, testimone dell’amore di Gesù per i musulmani per trent’anni e proseguendo fino alla drammatica vicenda della sua immersione nella rivoluzione tradita da tutti, la rivoluzione disarmata dei protagonisti, giovani e anziani, contadini e studenti urbani, ragazzini del sud e laureandi del nord; la Primavera siriana. Così questa catena di racconti, di ricordi, di sospiri, diviene una tessitura sonora di testimonianze che si susseguono legandosi come una canzone che viene scritta man mano da vari autori.. Amici che lo seguono, interlocutori che lo scoprono, compagni di avventura che tra fascino e incomprensioni realizzano con lui questa nuova avventura, come il co-fondatore della Comunità monastica di Mar Musa, padre Jacques Murad, oggi vescovo di Homs. Ovviamente ci sono anche parenti sorpresi, musulmani grati di tanta amicizia disinteressata, o interessatissima, in realtà. Perché è soprattutto a loro che Dall’Oglio deve testimoniare l’amore di Gesù per loro. Questo filo di mille colori, questa voce fatta da tante voci che si scambiano il testimone nella costruzione plurale di un racconto, quello di una vita spesa per il vivere insieme, accompagna lo spettatore in un’opera di fedele ricostruzione di un percorso affascinante, sempre sorprendente, nella dimostrazione concreta di quanto cambi il mondo il buon vicinato. Così le parole spiegano l’immagine di padre Paolo fermo sul ponte che porta al suo monastero; un ponte tra vite, fedi, culture, che con lavori comuni e spiritualità diverse porta avanti l’armonia, che come l’impianto di questo film crea un discorso da tanti discorsi.
Il deserto ovviamente svolge un ruolo delicato, difficile, importante, introdotto magistralmente dal teologo musulmano Adnane Mokrani, e per altro verso concluso dal confratello, padre Federico Lombardi.
L’avventura di padre Paolo così scorre seguendo un impianto stabilito con cura meticolosa, quella scelta da una trentina di testimoni della sua avventura che forse non si conoscono neanche tutti tra di loro, che costruiscono il discorso seguendo ricostruzioni diverse, ma che si compongono naturalmente in un racconto senza sbavatura; magari con opposizioni, ma senza contraddizioni.

Si procede fino al capitolo drammatico, quella della cacciata di Dall’Oglio dalla Siria da parte del regime di Assad e poi del suo sequestro da parte dell’Isis. Già in questo si coglie la sintesi epocale e nazionale di questa storia: cacciato da Assad e sequestrato dall’Isis infatti è il destino di Dall’Oglio come del popolo siriano, espulso dal suo Paese da Assad e sequestrato dall’Isis, il feroce garante della irrecuperabilità di milioni di siriani alla vita, e alla libertà. Di quei mesi padre Paolo ha scritto rivolgendosi a un ipotetico giovane europeo: “Quando gli europei evocano la Siria, parlano del loro destino, e non sanno cosa scegliere: l’assenza o la rassegnazione”. Parlare di profezia è banale, ma sembra tremendamente reale, soprattutto pensando che lo scriveva dodici anni fa. A differenza di molti altri discorsi su Paolo Dall’Oglio, questo film non riduce la storia al suo ignoto finale, alla ricerca della risposta mancante: è vivo? E’ morto? Piuttosto fa emergere la vera domanda: Perché un sequestro senza rivendicazione né riscatto? Perché della sua sparizione si vuole sapere solo la fine e non i motivi? Da subito abbiamo avvertito il bisogno di andare a capo, di corsa. Tutto sommato l’ha ucciso un terrorista, forse c’è anche un nome, o al massimo un altro. Punto e a capo.

Dall’Oglio ha visto “l’oscura cloaca” – la definiva così- che al terrorismo agglutinava mercanti d’uomini, di droghe, di armi, pezzi d’ intelligence più o meno deviate. Difficile che anche “l’oscura cloaca” non abbia visto lui. La quiete dell’illogicità allora sarebbe il perfetto anestetico? Uscendo dalla sala, ripensando al deserto, alla profondità dell’orizzonte, ai colori che sfumano, a Mar Musa, alla fraternità, alla tragedia di un popolo, alla ferocia senza limiti e poi al buon vicinato, fino alla scelta di andare comunque, anche dall’Isis, il discorso sulla “fine” tutto mi è apparso tutto fuorché illogico, almeno per l’oscura cloaca. Ma queste sono illazioni, l’ordito del film di Segatori riporta a galla, finalmente, la realtà di una vita dai mille racconti, dai mille colori, dai mille risvolti, e quindi dalle scelte irreversibili, una vita che stavamo lasciando sfuggirci di mano, distrattamente, mentre tentava di indicarci, da quel deserto, come dovremmo guardare per capirci, oggi. Per questo è doveroso ringraziare chi l’ha riportata a galla, mi modo accessibile a tutti.


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