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La ribellione del Governo di Roma ai giudici europei e il rispetto dello stato di diritto in Italia

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La posta in gioco dello scontro tra il Governo Meloni e la magistratura in materia di asilo e paesi (cosiddetti) sicuri appare tecnicamente complicata, ma chiaramente identificabile nel suo tratto politico essenziale: il rapporto che deve esistere tra il diritto statuale e il diritto europeo.

È evidente che la posizione del Governo italiano presuppone l’ipotesi della prevalenza del primo sul secondo e, d’altra parte, si tratta di una posizione in diverse occasioni espressa apertis verbis dalla stessa Presidente del Consiglio e da alcuni dei suoi ministri.

Sarà utile, allora, prendere in esame tutte le conseguenze che una pretesa del genere porta con sé, non solo nella configurazione dei rapporti tra Roma e Bruxelles, ma anche nel rispetto dello stato di diritto nel nostro paese.

 

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che è un diritto-dovere dei giudici ordinari – un rinvio deciso dalla Camera di Consiglio del Tribunale ordinario di Bologna il 25 ottobre 2024 (LINK) in relazione ad un procedimento relativo al riconoscimento della protezione internazionale da parte di un cittadino del Bangladesh – solleva almeno due questioni essenziali per il funzionamento dell’Unione europea con un esito che interessa le relazioni di tutti gli Stati membri e dei suoi cittadini con la dimensione sovranazionale dell’integrazione europea.

La decisione di Bologna apre inoltre incidentalmente – senza che ciò appaia nel ricorso pregiudiziale di quel Tribunale – una terza questione relativa al rischio di una violazione grave da parte di uno Stato membro e in questo caso dell’Italia dei valori definiti nell’art. 2 del Trattato di Lisbona e dunque del rispetto dello stato di diritto e della Carta dei diritti fondamentali da parte del governo di quello Stato.

 

Le prime due questioni vanno ben al di là dei principi e delle regole riguardanti le politiche migratorie che – sulla base delle disposizioni relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia da cui deriva l’attuale Regolamento di Dublino in vigore fino al giugno 2026 per essere poi sostituito dal Migration Pact – si applicano agli Stati membri ed esigono dalla Commissione europea e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea un’azione costante di monitoraggio sul rispetto dei Trattati e delle norme adottate in virtù dei Trattati stessi.

 

Le due questioni riguardano il primato del diritto europeo sulle norme nazionali nei settori di competenza dell’Unione europea – anche se le norme nazionali fossero di diritto primario come è il caso dei Decreti-legge del Governo italiano sui flussi migratori e sui cosiddetti paesi sicuri – e, ancor di più per l’esistenza stessa dell’Unione europea, la necessità di assicurare uniformità di applicazione del diritto europeo su tutto il suo territorio.

 

Nel primo caso – anche se il Trattato di Lisbona non ha previsto un riferimento esplicito nel suo articolo 4 TUE – la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia dell’Unione europea ed il Servizio giuridico del Consiglio dell’Unione nel parere del 22 giugno 2007 richiamato dalla Dichiarazione n. 17 allegata al Trattato di Lisbona confermano il primato del diritto europeo che si impone sulle norme e sulle giurisdizioni nazionali ivi comprese le norme più elevate di carattere costituzionale.

Del resto, quasi tutte le Corti costituzionali nazionali, come quella italiana nella Sentenza Granital dell’8 giugno 1984 che recepisce la Sentenza Simmenthal della Corte di Giustizia del 9 marzo 1978 in cui si afferma il potere dei giudici ordinari di disapplicare le norme interne contrastanti con quelle europee, o addirittura le costituzioni irlandese (art. 29.4.10), lituana (136) e olandese (art. 94) riconoscono esplicitamente il primato del diritto europeo sul diritto statuale.

 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea è chiamata a confermare la sua giurisprudenza costante su questo punto ribadendo il primato del diritto europeo nel caso specifico ma anche come principio di carattere generale.

 

Per quanto riguarda l’applicazione uniforme del diritto europeo su tutto il territorio dell’Unione europea e ferma restando la competenza degli Stati membri ad indicare la lista dei paesi cosiddetti sicuri, il dispositivo della sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 (LINK) afferma che un paese può essere considerato sicuro solo quando non ci siano rischi reali di danni gravi diretti in una parte del territorio del paese.

I giudici europei aggiungono invece nella motivazione della sentenza i rischi nei confronti di appartenenti a specifici gruppi sociali o forme persecutorie per quanto riguarda le persone LGTQIA+ o appartenenti a minoranze sociali, etniche o religiose o donne esposte a violenza di genere o rischio di tratta.

In questi casi, è evidente che tutta la popolazione di un paese appare esposta a rischi persecutori perché raramente le minoranze sono segnate da confini netti e facilmente identificabili e, quando vi è persecuzione di un gruppo minoritario, la stessa persecuzione tende a colpire anche chi sia entrato in relazione con il gruppo stesso.

 

La necessità di assicurare l’uniformità di applicazione del diritto europeo su tutto il territorio dell’Unione europea rende del resto indispensabile e urgente la definizione e l’adozione di una lista europea di paesi sicuri e la rinuncia ad esternalizzazioni sulla base di accordi bilaterali, come il Protocollo italo-albanese, nel rispetto dei criteri definiti dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea perché essa è competente a giudicare sulla validità degli atti dell’Unione europea rispetto ai Trattati e alla Carta dei diritti fondamentali.

 

La terza questione, che, come abbiamo detto, appare solo incidentalmente nel ricorso del Tribunale ordinario di Bologna, riguarda l’ipotesi di un rischio grave di violazione dei valori definiti dall’art. 2 del Trattato – e dunque della Carta dei diritti e del rispetto dello stato di diritto – da parte del Governo italiano.

Tale ipotesi è degna di essere presa in considerazione per l’esplicita ragion d’essere delle iniziative del Governo italiano sui flussi e sui paesi sicuri che tentano di aggirare le sentenze europee con la proprietà transitiva di voler annullare gli effetti delle sentenze della giurisprudenza italiana che a quelle sentenze si richiamano.

Tale ipotesi assume un valore politico prima che giuridico per le raccomandazioni contenute nel rapporto della Commissione europea sul rispetto dello stato di diritto in Italia nel 2023 (LINK) diffuso nello scorso mese di luglio dopo il rinnovo del mandato di fiducia a Ursula von der Leyen da parte del Parlamento europeo.

 

Vale la pena di ricordare che i criteri per valutare il rispetto dello stato di diritto come sono stati definiti dalla Commissione di Venezia riguardano la legalità, la certezza giuridica, la prevenzione dell’abuso di potere, l’uguaglianza davanti alla legge, la non discriminazione e l’accesso alla giustizia.

In questo spirito riteniamo che si debba riflettere sull’idea di promuovere una commissione di giuristi europei per redigere un rapporto sullo stato della democrazia in Italia da inviare al Parlamento europeo e alla Commissione europea chiedendo a queste istituzioni di esaminare se ci sono le condizioni per chiedere al Consiglio europeo di attivare l’articolo 7.1 TUE.

Si tratta, com’è noto, dell’articolo che prevede la sospensione del diritto di voto nel Consiglio per i paesi che violano i valori iscritti nell’articolo 2 TUE e i principi fondamentali fissati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Pier Virgilio Dastoli

4 novembre 2024

(anniversario della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950)


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