Aveva capito fin da subito che quella storia non sarebbe mai potuta essere soltanto sua.
Licia Rognini Pinelli, vedova di Pino, il ferroviere anarchico che cadde, in circostanze neanche troppo misteriose, dal quarto piano della questura di Milano, durante un interrogatorio legato alla strage di piazza Fontana, Licia, dicevamo, se n’è andata all’età di 96 anni, al termine di una vita spesa quasi interamente alla ricerca della verità e della giustizia.
È stata la sua battaglia gentile, la sua lotta contro i demoni di una democrazia incompiuta, immatura, imperfetta, pervasa da troppe pulsioni golpiste, caratterizzata da innumerevoli punti oscuri, mai davvero autonoma e in grado d camminare con le proprie gambe.
Pino Pinelli, del resto, è stato solo la vittima più eclatante di quella che è stata, a tutti gli effetti, una “strage di Stato“. Chi meglio di lui, in quel clima di fine anni Sessanta, quando l’obiettivo delle frange più reazionarie della società italiana, e non solo, era quello di porre fine alla stagione del centro-sinistra? Un uomo libero, che studiava l’esperanto, innamorato della vita, pacifista e contrario a ogni forma di violenza: il capro espiatorio perfetto, al pari del ballerino Valpreda, additato come “mostro”, la cui esistenza venne stravolta da una vicenda che reca ancora con sé troppi non detti.
Licia ha affrontato il dolore, la sofferenza e lo strazio con straordinaria dignità. Ha cresciuto da sola le figlie Claudia e Silvia, rimaste orfane quando erano ancora bambine, e ha fatto sì che non smettessero, a loro volta, di lottare. Ha scritto anche un libro, “Una storia quasi soltanto mia” per l’appunto, facendosi supportare da Piero Scaramucci, tra i fondatori e per dieci anni direttore di Radio Popolare, voce dell’anima movimentista di Milano, protagonista di un impegno senza fine dalla parte dei diritti e della democrazia.
Piazza Fontana, è bene ribadirlo, è stata molto più di una tragedia. Non è stata neanche la “perdita dell’innocenza”, venuta meno già ai tempi di Portella della Ginestra e dell’omicidio di Mattei, ma la scintilla che ha innescato la barbarie. La mia opinione, infatti, è che non siano stati i figli del boom a fondare le Brigate Rosse, Prima Linea e altre formazioni eversive che si sono rese protagoniste, negli anni Settanta, di azioni spregevoli e drammatici spargimenti di sangue; al contrario, è stato quel clima a generare l’abisso, una reazione tragica e disumana all’orrore altrui che ha reso fragile il nostro assetto istituzionale, facendo emergere le falle di un sistema monco, privo di autorevolezza e di quell’indipendenza indispensabile per poter affermare la dignità di una Nazione.
Licia ha attraversato la tempesta con passione e coraggio, non si è mai tirata indietro, ha resistito alle offese, ai depistaggi, alle prese in giro, ai tentativi di infangare la memoria del marito e alla crudeltà di chi ha tentato di far cadere nell’oblio una vicenda che ha segnato la nostra vita pubblica e anche le nostre esistenze private.
Piazza Fontana, cinquantacinque anni fa.
Il prossimo 12 dicembre varrà, dunque, la pena di andare a deporre un fiore in più di fronte alla targa che ricorda Pino, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, nel cuore di una città che temiamo abbia dimenticato da tempo il suo passato, la sua storia e la memoria di una stagione non potrà mai concludersi fino a quando non conosceremo non tanto i nomi dei responsabili materiali quanto quelli dei mandanti effettivi.
Cinquantacinque anni, un tempo infinito. Ora Licia può riposare in pace, perché la sua battaglia è diventata la nostra e non consentiremo che finisca.
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