Un lungo e immersivo piano sequenza apre il racconto ed è la cifra stilistica del giovane autodidatta lettone Gints Zilbalodis, che dirige questo film di animazione senza furbizia, con una purezza preconcettuale, si direbbe appellandosi a qualcosa di primordiale, qualcosa che l’essere umano condivide con gli esseri di altre specie.
Il protagonista del film non è infatti umano, ed è lui a introdurci subito nel vivo dell’azione, col suo punto di vista felino e la sua andatura fluida e ondeggiante. Vediamo quello che vede lui, in soggettiva. Siamo tutti dentro un gatto nero, vibriamo con lui, produciamo insieme a lui quel ronfolìo tipico delle fusa, quel mormorìo gutturale e modulato che ci accompagnerà per tutto il film, come linguaggio alternativo alla parola.
Siamo in un futuro apocalittico, che però non sembra avere nulla di respingente o di distopico, dal momento che manca totalmente la presenza umana: le persone non abitano più la Terra, pur avendo lasciato case disabitate e oggetti a noi familiari. Ci si aspetta che spunti da un momento all’altro, dal folto della vegetazione, Conan il ragazzo del futuro di Miyazaki, e invece entrano in scena solo altri animali, un branco di cani e poi cervi, uccelli e d’improvviso l’acqua, un flutto impetuoso che ricopre terre e foreste, finché il nostro micio nero non trova una barca galleggiante che, novella arca, salva animali di specie diverse curiosi e non troppo preoccupati di quel che sarà, se non nel qui e ora immediati della sopravvivenza. Nello stile dei personaggi non c’è nulla che possa ricordare la definizione d’immagine e la quantità di dettagli della Pixar né lo stile antropomorfo dei classici Disney, ma la povertà di nitidezza e il disegno meno definito (dovuto a un budget imparagonabile a quello dei colossi dell’industria dell’animazione) si accompagnano a un realismo dei movimenti e a una verosimiglianza dei comportamenti animali che avvicina, intenerisce e colpisce molto lo spettatore. Ai protagonisti del film, si direbbe, “manca solo la parola”, se non fosse che in realtà della parola non si sente per nulla la mancanza, per tutti gli 84 minuti di durata del film, complici un sound design accuratissimo e avvolgente (a cura del francese Gurwal Coïc-Gallas) e un’espressività spiazzante degli animali. Ognuno di loro ha caratteristiche e abilità e forse addirittura intenzionalità peculiari: il lemure è curioso e dispettoso, il kapibara dormiglione, il cane goffamente giocoso, l’uccello dal bianco piumaggio ieratico e leale, il gatto osservatore e avventuroso. Nessuno ha strettamente “bisogno” degli altri, ma nella convivenza a bordo della stessa scialuppa si crea una solidarietà che sfocerà in collaborazione alla fine del film. Gli ambienti in cui si svolge questo viaggio senza meta e senza intenzione, rigorosamente allagati, sono invece sfondi vividi e ricchi di dettagli ben definiti, anche grazie a un uso della luce e dei riflessi sull’acqua molto suggestivo, che fa percepire l’elemento naturale come un’affascinante precondizione per ogni altra forma di vita e accadimento.
Il regista lettone, classe 1994, ha creato il suo primo corto d’animazione all’età di 17 anni e in completa autonomia. Il protagonista di quella primissima creazione era già un gatto, anche se molto più stilizzato; l’elemento acqua e il rischio che il Pianeta ne fosse sommerso era molto più che in nuce. “Quando ero adolescente sognavo di fare cinema – ha raccontato Gints Zilbalodis – ma era difficile realizzare i film che immaginavo, non avendo budget e competenze. Inoltre ero timido e non avevo fiducia in me stesso, quindi pensavo che avrei avuto molte difficoltà se avessi dovuto lavorare con una troupe, dicendo alla gente cosa fare. Ho scoperto allora che potevo fare film animati da solo, con i miei ritmi, e potevo creare qualsiasi cosa volessi”. Questo suo secondo lungometraggio è il primo lavoro che non abbia portato a termine da solo: ha utilizzato un software open source disponibile gratuitamente e, pur essendosi aperto a qualche collaborazione, si è occupato di sceneggiatura, montaggio, fotografia e musica (in collaborazione con Rihards Zalupe). Flow – Un modo da salvare è stato presentato in anteprima mondiale nella sezione Un certain regard di Cannes 2024, oltre ad aver vinto il prestigioso Festival di Annecy.
Il “flow” non è quindi solo il flutto d’acqua, ma anche quell’attitudine da seguire, da lasciar fluire, da accettare per convivere sulla stessa barca, dove è necessario cooperare per salvarsi, andando oltre le differenze, oltre i bisogni specifici di ognuno. Conta di più acuire i sensi e seguire il proprio istinto, che non è necessariamente aggressivo, anzi. Quegli animali non sono certo responsabili di quello che sta accadendo, non ci viene spiegato perché si arriva a quella situazione estrema, ma siamo tutti invitati a prendere parte al viaggio senza meta a bordo dell’imbarcazione, a fare esperienza di quella convivenza necessaria, a superare le nostre paure (persino il gatto impara a nuotare per nutrirsi!) e a cercare rimedio o compensazione ai propri limiti attraverso l’incontro con l’altro, non mediato dalla cultura, dall’intelletto astratto né dalle trappole del linguaggio. Sembra una favola o quasi un mito fondativo per una nuova alleanza transpecista, farsi trasportare ma restando in contatto con la natura e con l’altro., in un modo incantevolmente non antropocentrico.
Nei cinema dal 7 novembre.
Flow, segui il flusso: l’istinto animale è più salvifico della ragione umana?