Justin Kemp fa parte di una giuria che deve giudicare su un presunto femminicidio. Così tutto l’impianto del film diventa un paradosso, perchè è proprio Justin ad avere ucciso la giovane Kendall in un fortuito incidente stradale. Nel regno della giustizia si annida la colpa. Ma a pagare sarà il fidanzato dell’uccisa, troppo schiaccianti le prove contro di lui. L’avvocata della vittima, Faith Killebrew, candidata al posto di procuratrice distrettuale, riesce a convincere tutti della sua colpevolezza e ottiene la carica. Ben presto, lei e tutti noi, sapremo dell’innocenza del condannato e della colpevolezza di Justin. Quest’ultimo ha cercato di fare scagionare, durante le riunioni della giuria, il fidanzato, tanto grande è il suo senso di colpa. Non ci riuscirà. Solo alla fine, ultima scena del film, la neo procuratrice distrettuale si presenterà alla porta del giovane, nel frattempo divenuto padre, decretandone la condanna. Eastwood continua con questa opera perfetta e mirabile, che ricorda tanto il cinema geometrico di Otto Preminger e Fritz Lang, il suo discorso provocatorio e ineffabile sulla giustizia, la verità e le contraddizioni dell’umano. Come in “Mystic river”, il grande cineasta americano più che sulla evidenza dei fatti punta sulle conseguenze degli stessi.
La sequenza chiave è quella nella quale Justin dice alla ormai sua consapevole “rivale” Faith che non sempre la verità è giustizia. Il giovane sa che confessando il mortale incidente, che sarebbe anche aggravato dai suoi precedenti di alcolista, rovinerebbe la vita del figlio appena nato e della moglie. La sottigliezza su cui gioca Eastwood è da leggere dentro la logica dell’impossibilità di sentirsi colpevole, tutta individuale. Il destino, il caso (altro topos eastwoodiano), e non la volontà, hanno condotto Justin ad una colpa che non può accettare come decisiva per la sua vita e quella dei suoi cari. Egli vuole che il corso degli eventi prenda un’altra strada, lontano da lui, dalla sua vita. Non esiste più per Justin la morale “assoluta”, quella della legge, della punizione. Tutto ciò per lui sarebbe intollerabile, addirittura ingiusto. La ragione personale è lontana da quella pubblica, non si incontrano. Quando Justin si allontana dalla panchina sulla quale ha dialogato con Faith, il bilancino della giustizia, ripreso in primo piano, traballa. Le certezze del diritto non coincidono sempre con le dinamiche individuali, frutto di un percorso interiore che non ammette verità assolute. Eastwood stringe il protagonista, metaforicamente, quasi ad anticipare l’inevitabile esito del suo impossibile affannarsi, in ambienti chiusi, la stanza dei giurati, il tribunale, la propria casa, i luoghi del delitto-incidente, lavorando sull’immaginario dello spettatore in maniera ossimorica. Tanto siamo immersi in una realtà incontrovertibile, prove alla mano, tanto siamo condannati, con il protagonista, ad accettare la relatività di questa certezza. Eastwood si supera, riduce il film all’essenziale, gioca con il non verbale non meno che con le parole, arrivando persino ad annullare queste ultime, frutto soltanto di una dissonanza cognitiva assolutamente irrisolvibile.
Non ci sono più parole neanche per definire la grandezza di questo 94enne artista, che lascia basiti per maestria formale e articolazione contenutistica, l’una e l’altra strettamente correlate come solo ai sommi artisti è dato di concedere.