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Eduardo, la voce corale di Napoli

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Non sappiamo se sia stato Eduardo a narrare Napoli o Napoli a narrare Eduardo. Fatto sta che l’incontro fra un genio del teatro e una città unica del suo genere ha creato un connubio che tuttora, a quarant’anni dalla scomparsa di uno dei simboli del Novecento, affascina chiunque abbia la fortuna di venire a contatto con la sua grandezza. È stata forse la stranezza della sua famiglia a forgiarlo, essendo figlio illegittimo del grande Eduardo Scarpetta, al pari dei fratelli Titina e Peppino. Un qualcosa di insolito per i primi del Novecento, specie se si considera che dal sodalizio con i fratellastri, e in particolare con Vincenzo Scarpetta, sono nate opere importanti. Va detto, però, che se oggi il teatro napoletano è conosciuto e amato in tutto il mondo lo si deve soprattutto ai tre figli spuri e, in particolare, proprio a Eduardo, capace di raccontare la sua città come nessun altro. Se questo è stato possibile è perché non si è mai dimenticato, neanche all’apice del successo, dei poveri, degli ultimi, degli scugnizzi, di quella Napoli che gridava e correva nelle piazze, dei vicoli e dei quartieri difficili: la Napoli della povertà e della fame, la Napoli che emigrava nel Nuovo mondo o si arrangiava fra mille difficoltà, la Napoli vivace e variopinta, fatta di colori, luci abbaglianti, sogni, speranze e momenti di involontaria goliardia che avrebbero caratterizzato la sua opera teatrale, oltre, come detto, a forgiarne il carattere.

Non staremo qui a elencare la miriade di opere che ci ha lasciato in eredità. Basti pensare a titoli come “Natale in casa Cupiello”, “Il sindaco del Rione Sanità”, “Filumena Marturano” e tanti altri capolavori che hanno elevato il dialetto napoletano al rango di lingua, conferendogli una riconoscibilità mondiale e rendendo possibile l’affermazione dei suoi testi ben al di là dei confini nazionali. Eppure, ribadiamo, neanche nel momento del trionfo Eduardo si è mai dimenticato delle sofferenze della sua terra, tanto che quando il presidente Pertini lo nominò senatore a vita proseguì la battaglia in nome dei ragazzi rinchiusi negli istituti penali minorili, ponendosi il problema del recupero di una gioventù perduta che non poteva essere condannata a un’esistenza di stenti in cui la criminalità costituisse l’unico sbocco. Un autore civile, dunque: questo è stato per tutta la vita Eduardo De Filippo, portando in scena, da par suo, la miseria e la nobiltà di un popolo abituato al niente eppure capace di farselo bastare. Non a caso, uno dei suoi più cari amici è stato il principe De Curtis, meglio noto come Totò, figlio dell’indigenza, autodidatta, perfettamente a proprio agio accanto a un istrione che poneva la sua immensità al servizio della causa dei deboli. E non sorprende nemmeno che un’altra personalità cui era legato da stima e amicizia fosse Pier Paolo Pasolini, il quale lo avrebbe voluto in un suo film, “Porno-Teo-Kolossal”, che non vide la luce a causa della morte di PPP in circostanze tragiche.

Non era un tipo facile, De Filippo. Basti pensare ai rapporti tutt’altro che idilliaci che ebbe con il fratello Peppino, costringendo la sorella a mediare fra i due. Era, però, un uomo di cuore, che avrebbe senz’altro meritato il Nobel per la Letteratura e al quale dobbiamo dire grazie non solo per averci commosso e indotto a riflettere ma per essere stato autore e interprete di un teatro che ha rivoluzionato il nostro modo di essere, portando in scena la sofferenza, la tristezza, la nostalgia, il rimpianto, la piccolezza umana e i rari slanci di generosità di personaggi a volte straordinari ma per lo più dannati. Nel teatro eduardiano, infatti, non c’è mai stato posto per la retorica e per il compiacimento. Non c’era posto neanche per l’eccesso. La sua voce è stata corale e potente proprio perché in grado di rendere giustizia a chi non ne aveva mai avuta, come una sorta di vendicatore di torti che usava la rappresentazione e l’ironia per denunciare le storture di una società non solo iniqua ma anche estremamente conservatrice.

Nell’ultimo discorso, tenuto presso il Teatro Greco di Taormina poco prima di morire, ha affermato: “… è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato”. Mai riflessione fu più profetica. Il suo cuore, difatti, continua a battere anche a quattro decenni di distanza, in una Napoli che sta vivendo una stagione di rinascita, pur essendo afflitta da una miriade di problemi, e in un’Italia sempre più sola e abbandonata a se stessa.

Pochi hanno messo in risalto la dimensione politica del personaggio, e pure questo è uno specchio dei tempi. Ci siamo permessi di farlo noi, coscienti di quanto la sua arte fosse soprattutto un grido, una forma continua di contrasto all’indifferenza, un modo per prendere per mano i derelitti e indicare loro una speranza e, infine, una ribellione contro quell’ordine costituito che non ha mai smesso di disprezzare e di sfidare.

Di quella Napoli scugnizza ma bonaria, levantina ma capace di slanci di vitalità senza pari, multiforme e per questo unica nel suo genere non è rimasto granché. Quel poco che è rimasto, tuttavia, lo si deve più che mai a un’eredità destinata a non finire, a un lascito eterno, a un insegnamento universale che va al di là del tempo, essendo parte di quella rabbia che ci cova dentro e a tratti esplode. Eduardo ci dà la forza di non arrenderci ed è questo il suo Nobel, il motivo per cui non smetteremo mai di essergli grati.


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