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“Terrorizzare i media”, così la guerra in Libano uccide i giornalisti

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“Oggi le civiltà sanno di essere mortali” sintetizzò il poeta francese Paul Valéry all’indomani della Prima guerra mondiale.
A più di cento anni di distanza non abbiamo ancora compreso il rischio di una guerra che rischia di essere totale, capace di non fare sconti a nessuno.
I giornalisti restano tra gli obiettivi privilegiati degli attacchi israeliani in Libano. Lo confermano le circostanze degli omicidi di tre giornalisti delle reti televisive Al Mayadeen (filo iraniana) e al-Manar, vicina agli Hezbollah. Secondo la ricostruzione delle autorità libanesi, l’esercito israeliano ha atteso che i giornalisti andassero a dormire in un bungalow nella regione della Hasbaiyya meridionale (una zona considerata relativamente sicura al confine tra Libano e Siria) dove riposavano 18 giornalisti stranieri di sette organi di informazione. Poi il feroce e deliberato attacco mirato a “terrorizzare i media per nascondere crimini e distruzione” tuonano le autorità libanesi che bollano gli assassinii come “un crimine di guerra degli israeliani”.
È paradossale come questo conflitto che tiene tutti con il fiato sospeso sia il meno raccontato dal campo degli ultimi anni per l’impossibilità dei media di accedere nei teatri di guerra. Ma qualcosa filtra tra le maglie di una informazione incompleta e di parte. Il quotidiano “New York Times” e la rete tv statunitense Cnn denunciano che civili palestinesi sono utilizzati come cavie per l’esplorazione di case e gallerie in cui si sospetta la presenza di esplosivi per non mettere a rischio le vite dei soldati israeliani. Immediata la smentita di Tel Aviv, altrettanto sferzanti le conferme circostanziate di un soldato israeliano e di cinque ex detenuti palestinesi. Non è casuale che questa pratica sia definita “protocollo zanzara” e neanche i minori sono risparmiati come scudi umani.
La politica oltranzista di Netanyahu sta aprendo falle nella società israeliana. 130 soldati dell’esercito si sono rifiutati di combattere a Gaza per “non sottoscrivere la condanna a morte” dei cento sequestrati ancora prigionieri nella Striscia. “Se il governo non cambia immediatamente rotta e non si adopera per raggiungere un accordo per riportare a casa gli ostaggi, non saremo in grado di continuare e prestare servizio” hanno scritto i militari al primo ministro di Tel Aviv. “Continuare la guerra a Gaza non solo ritarda il ritorno degli ostaggi ma mette in pericolo le loro vite” è l’amara conclusione del documento.
Intanto cresce anche il numero di giovani israeliani che rifiutano di combattere. Dall’inizio del conflitto le Forze di Difesa Israeliane hanno richiamato 360 mila riservisti. Difficilissimo ottenere l’esenzione dal servizio militare per motivi fisici e religiosi mentre l’obiezione di coscienza non è un diritto riconosciuto. Il sistema militare è sotto pressione come dimostra la decisione della Corte Suprema di procedere all’arruolamento forzato anche degli ebrei ortodossi che fino ad oggi hanno beneficiato dell’esenzione introdotta nel 1948 alla nascita dello Stato.
Il servizio militare è obbligatorio per tutti (uomini e donne) al compimento del diciottesimo anno. Tutti (dopo la ferma) possono essere richiamati per addestramenti, emergenza, attività operative.
Di fronte al rifiuto del servizio militare o del richiamo, scatta il processo e l’arresto. Dopo la scarcerazione scatta un’altra convocazione dell’esercito ed un altro processo con relativa carcerazione.
E’ bello concludere con una frase di Rosario Livatino, il giudice ragazzino ucciso dalla mafia: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”.


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