C’è un proverbio arabo che fa più o meno così: i cani ballano sul corpo del leone abbattuto. Ma il leone resterà sempre leone e i cani resteranno sempre cani, servi dell’assassino.
Non ci vuole molto a capire chi sono i cani e chi il leone, anzi i leoni , le cui vite sono state spezzate illudendosi che non ci sarebbero stati cuccioli pronti a sostituirli crescendo.
Per nascondere la dignità degli uccisi si cerca di additarli non come combattenti per una causa nobile, la Libertà, ma come fuggiaschi, o sfruttatori del loro popolo, o perversi. S’inventano storie di cui nessuno controllerà la veridicità e s‘inventano perfino soprannomi ignobili attribuiti ai leoni abbattuti dalla fetida muta del padrone.
Così, mentre la banda di Tel Aviv ordina di stritolare migliaia e migliaia di corpi di bambini e donne e adulti e di abbattere centinaia di migliaia di case, di distruggere ospedali, di bombardare ambulanze e asili e scuole, di bruciare vivi poveri sfollati ammucchiati in tende di plastica e di commettere ogni tipo di orribile scempio del popolo sotto oppressione e dei suoi pochi alleati, e mentre, col macellaio di Tel Aviv in testa, la stessa banda irride le leggi internazionali, i diritti umani universali , le Istituzioni che osano criticarne l’immensità dei crimini, mentre tutto questo accade vediamo la sua fedele muta politica e mediatica che, in suo omaggio, celebra gli omicidi dei capi della resistenza, ultimo quello di Yahya Sinwar, assassinato mentre combatteva, e non nascosto nei tunnel come le veline israeliane dettavano ai loro fedeli media per screditarne l’immagine.
Sinwar è stato assassinato dagli israeliani mentre era gravemente ferito, contravvenendo anche al diritto bellico per il quale un nemico gravemente ferito e dunque inoffensivo deve essere arrestato, non ucciso. Ma Sinwar non avrebbe mai detto al suo assassino “Vile, tu uccidi un uomo morto” come abbiamo imparato nei nostri libri di storia e come, dal XVI secolo ad oggi resta ancora l’insulto più forte verso la viltà. Non l’avrebbe mai detto perché conosceva bene la ferocia israeliana che della sua viltà fa vanto e spettacolo senza ritegno, mostrandosi in video autoprodotti , proprio come i colonizzatori italiani agli ordini del criminale fascista Graziani facevano con le foto negli anni bui del colonialismo italiano in Africa. Deve essere una caratteristica propria dei coloni vantarsi dei propri crimini. Così come è una caratteristica dei servi mediatici servire i potenti, all’epoca tramite l’EIAR e la stampa di regime, oggi tramite le Tv di massa e la stampa… di regime!
L’eliminazione dell’ultimo dei massimi leader della resistenza palestinese avrebbe dovuto significare la fine del genocidio di Gaza e invece no, il macellaio di Tel Aviv, colui che tiene al guinzaglio le massime Istituzioni internazionali e numerosi governi occidentali, Italia compresa, non è ancora sazio di sangue e di terra e quindi va avanti contando sulla fedeltà di quei latranti che all’unisono ripetono la magica frase della Hasbara “Israele ha diritto a difendersi”, come se fosse lui la vittima.
Sarà dura per loro distruggere l’icona del leader morto combattendo contro un nemico enormemente più potente e così provano ancora a distruggerne l’immagine nel modo più ignobile, lo fa l’Huffington post ipotizzando di aver riconosciuto in un video girato nei sotterranei, sbiadito, sgranato e in grigio e nero, una borsa di pregio nelle mani della moglie lasciando intendere che la sua famiglia vivesse nel lusso mentre la popolazione sta morendo di fame. In tal modo il misero tentativo di svilire il nemico sposta su di lui l’attenzione verso l’ennesimo crimine di guerra israeliano consistente nel blocco di viveri alla popolazione assediata e bombardata.
L’infamia mediatica che abbiamo visto usare già contro Hanyeh, Nasrallah e tutti gli altri numerosi assassinati dalla banda di Tel Aviv, si espande, arrivando a colpire anche chi ha mantenuto onestà intellettuale e dignità del ruolo, come il giudice romeno che voleva emettere il mandato di cattura contro Netanyahu e che è stato stranamente dimissionato per motivi di salute. O come il procuratore generale Karim Khan che appena aveva richiesto ai giudici il mandato di cattura, era stato denunciato per molestie sessuali. È un gioco inflazionato ma ancora funzionante visto il potere degli opinion maker che fungono da muta o scorta o esercito mediatico del carnefice di Tel Aviv. Gli stessi che proprio oggi, dopo gli ultimi attacchi israeliani su Teheran, seguitano ad abbaiare “diritto all’autodifesa” dando voce, come fossero degni rappresentanti della democrazia, al sionista britannico Starmer e al confuso Biden.
Ma tra i nemici della resistenza palestinese non va dimenticato il fuoco amico, come i “compagni” che definiscono in partito di Hamas islamico-fascista accomunandolo all’Isis e ignorando, o fingendo di ignorare, che Hamas ha rappresentato un baluardo contro l’Isis. O inventando odio e repressione verso i palestinesi cristiani, anche qui ignorando, o fingendo di ignorare, che i cristiani a Gaza e in tutta la Palestina lavorano fianco a fianco con i musulmani essendo prima di tutto palestinesi e rispettandosi vicendevolmente. Ne sia prova la distruzione di chiese tanto cattoliche che ortodosse e luterane da parte dell’IDF, al pari delle moschee.
Altro veleno instillato dai falsi amici è quello di scrivere che Hamas “ormai, aveva contro larga parte dei palestinesi .” Questo è palesemente falso e chi conosce la Palestina dall’interno lo sa benissimo. O, ancora, che “Hamas è finita, ormai. Politicamente, ma anche militarmente: è allo sbando. Restano le armi, sì. Restano degli uomini armati. Resta la capacità di trasformare Gaza in un Vietnam di attentati e imboscate. Ma niente di più.” Così scrive la Borri, la stessa che nel 2018 vendette l’intervista a Sinwar, con traduzione criticata e smentita dallo stesso, al giornale conservatore israeliano Yedioth Ahronoth.
Quindi anche il fuoco amico manca di rispetto, ma in modo più raffinato, verso chi ha combattuto per quella causa che è al primo punto nella Carta dell’ONU: il principio di autodeterminazione dei popoli. Principio ribadito anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma regolarmente violato nei confronti del popolo palestinese già a partire dal 1947 a causa dell’ interesse occidentale a istituire un proprio avamposto alle porte dell’Oriente e in prossimità del canale di Suez.
Eppure il rispetto verso chi (anche commettendo errori ) ha dato la propria vita per una causa – che la Storia c’insegna essere giusta – sarebbe ed è cosa dovuta e solo chi sacrifica sull’altare del servilismo la propria dignità umana non porta rispetto verso i martiri della libertà neanche quando questi vengono colpiti in modo efferato e mafioso nei propri affetti. Infatti non abbiamo sentito parole di condanna neanche verso lo sterminio di 60 membri della famiglia di Hanyeh, compresi i nipoti – alcuni neonati – mentre lui era in esilio, ma al contrario abbiamo letto ignobili derisioni nei suoi confronti anche dopo il suo assassinio.
Fate schifo, poveri cani fedeli a un padrone che vi annegherà appena non sarete più utili. Portar rispetto non vi appartiene, altrimenti dovreste abbandonare la vostra livrea e il vostro nome nei vari libri paga.
Eppure, che vi dispiaccia o meno, Sinwar è un martire della resistenza all’occupazione sionista e la sua vita, compresi i 23 anni passati nelle prigioni dell’occupante, è indiscutibilmente prova di estrema coerenza e nessun palestinese l’ha mai considerato un macellaio, come raccontano i media con la missione del discredito, escluse, forse, le spie di Israele nei confronti delle quali è sempre stato implacabile.
Alcuni passi del suo testamento, che i media mainstream si guarderanno bene dal diffondere, ci mostrano l’uomo e il combattente, lo stesso che ha ideato la giornata – purtroppo con esito inaspettatamente cruento e conseguenze genocidarie – che ha impedito alla Palestina di essere totalmente schiacciata dagli accordi di Abramo voluti da Trump.
Per rispetto all’uomo e al combattente riproduciamo alcuni di quei passi:
“Sono l’uomo che … ha capito presto che vivere sotto occupazione significa non avere altro che una prigione permanente… la prigione mi ha insegnato che la libertà non è solo un diritto rubato, ma un’idea nata dal dolore e affinata dalla pazienza … chi nasce qui deve portare nel cuore un’arma indistruttibile, e capire che la strada verso la libertà è lunga… le pietre sono le prime parole con cui possiamo farci sentire da un mondo che osserva silenzioso le nostre ferite… Il nemico vuole che abbandoniamo la resistenza, per trasformare la nostra causa in una negoziazione senza fine. Ma vi dico: non negoziate per quello che vi spetta di diritto. Temono la vostra fermezza più delle vostre armi… La resistenza non è solo un’arma che portiamo con noi; è piuttosto il nostro amore per la Palestina in ogni respiro che prendiamo… rimanere fedeli al sangue dei martiri, a coloro che sono partiti e ci hanno lasciato questo cammino pieno di spine. Sono loro ad averci aperto il cammino verso la libertà con il loro sangue… sapevo che ogni passo verso la libertà aveva un prezzo. Ma vi dico: il prezzo della resa è molto più grande. .. Nella battaglia Al Aqsa Flood, non ero il leader di un gruppo o movimento, ma piuttosto la voce di ogni palestinese che sogna liberazione. .. Volevo che questa battaglia fosse una nuova pagina nel libro della lotta palestinese, dove le fazioni si unissero e tutti si schierassero in un’unica trincea contro un nemico che non ha mai distinto tra un bambino e un anziano o tra una pietra e un albero…. Le mie ultime volontà sono quelle di ricordare sempre che la resistenza non è vana e non è solo un proiettile sparato; è piuttosto una vita vissuta con onore e dignità…Non aspettatevi che il mondo faccia giustizia per voi; ho vissuto e testimoniato come il mondo rimane muto di fronte al nostro dolore… Se cado, non cadete con me; portate per me uno stendardo mai caduto e fate del mio sangue un ponte per una generazione più forte nata dalle nostre ceneri. .. da ogni martire mille combattenti della resistenza nasceranno dal ventre di questa terra…”