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L’antica saggezza operaia

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Era da tempo che non si vedeva una manifestazione come quella di venerdì scorso contro le politiche di Stellantis. Non staremo qui a sottolineare le differenze rispetto alla vecchia FIAT degli Agnelli; fatto sta che esiste capitalismo e capitalismo. E gli Agnelli ne incarnavano la versione sabauda, attenta al profitto ma anche, almeno un minimo, alla vita delle persone. Del resto, uno dei pallini dell’Avvocato era l’italianità della sua azienda.

Certo, specie negli ultimi anni di vita, anche lui era favorevole alle fusioni industriali per far fronte alle esigenze e alle sfide del nuovo mondo globale; tuttavia, un conto è unire le forze, ben diverso è minacciare di chiudere gli stabilimenti qualora non dovessero arrivare altri soldi pubblici per tenere in vita una produzione che senz’altro costituisce un fiore all’occhiello del nostro Paese ma è comunque privata.

Spiace dirlo, ma la socializzazione delle perdite dopo aver privatizzato i profitti è la vera vera cifra del capitalismo contemporaneo, ed è un discorso che va ben al di là di Stellantis. E qui si inserisce il disastro della politica europea. Perché a furia di indebolire i parlamenti, di attaccare le costituzioni anti-fasciste del dopoguerra, di mettere in discussione i presidi di legalità, di tentare di mettere dei fedelissimi a capo degli organi di garanzia e di manomettere l’indispensabile divisione dei poteri, a furia di attuale il Piano Gelli, non solo in Italia, la politica si è auto-sabotata.

Si tratta di un fenomeno continentale, probabilmente mondiale, specie se si considera che dall’altra parte dell’Oceano la sfida ormai non è tanto fra Trump e Biden quanto fra Musk e Zuckerberg, con gli altri padroni della Silicon Valley e gli altri dominus di Wall Street a loro volta impegnati a spartirsi i beni comuni, favorendo non solo la disaffezione del popolo ma la degenerazione della vita americana.

Comunque vada a finire il prossimo 5 novembre, a quelle latitudini non soltanto non esiste più il sogno ma nemmeno la speranza. L’America, di fatto, non c’è più. Oggi c’è un Paese in guerra con se stesso, schiavo di interessi divenuti troppo grandi per essere tenuti sotto controllo e prigioniero di un modello sociale, economico e di sviluppo che, anche grazie alla Scuola di Chicago, tempio del neo-liberismo, è purtroppo dilagato ovunque. E così, senza politica, ci ritroviamo pure senza democrazia o, per meglio dire, con una democrazia dimidiata, fragile, insicura, malferma sulle gambe e bisognosa non soltanto di essere curata ma di essere innervata da una nuova linfa.

Per esistere, infatti, la democrazia ha bisogno di un popolo che se ne prenda cura e ne avverta il bisogno, e oggi questo popolo complessivamente manca.

Eppure, venerdì piazza del Popolo era piena. Gli operai, i partiti del cosiddetto “campo progressista” e coloro che hanno compreso quale sia la posta in gioco hanno risposto all’appello. L’antica saggezza delle tute blu, la stessa che ottant’anni fa ha combattuto e sconfitto il nazi-fascismo tramite gli scioperi e che negli anni del terrorismo ha garantito la tenuta dell’Italia, la passione civile di una categoria vessata ma ancora in grado di comprendere l’importanza di trasformare i singoli in una comunità ha fatto il miracolo.

Roma si è riempita di manifestanti, il governo ha ricevuto un messaggio inequivocabile e anche i vertici di Stellantis hanno capito che non potranno andarsene senza suscitare una protesta all’altezza della gravità di quanto sta avvenendo.

Urgono garanzie occupazionali, un piano industriale degno di questo nome e il massimo rispetto nei confronti di persone che non possono essere trattate alla stregua di mere voci di bilancio. E urge una politica che, a un certo punto, eserciti il proprio ruolo.

Se l’Unione Europea continua a essere ostaggio del liberismo guerrafondaio di paesi che poco hanno a che spartire con la sua storia e con i suoi valori, l’Italia ha il dovere di difendersi con gli strumenti della civiltà. Sarebbe bello se potesse nascere un IRI europeo capace di far fronte all’emergenza industriale che caratterizza il Vecchio Continente, ma poiché siamo di fronte a un’utopia, non possiamo far altro che ricostituire il nostro IRI, ricreando quella straordinaria scuola di manager che tante volte ha salvaguardato non solo l’occupazione ma anche la qualità del lavoro nel nostro Paese.

La questione ormai è identitaria. Obama, a suo tempo, salvò Chrysler grazie a un intervento pubblico, oltre che al buon rapporto che instaurò con Sergio Marchionne. Non possiamo che fare altrettanto.

La desertificazione industriale, difatti,  comporterebbe una desertificazione delle competenze, un declino senza fine, sostanzialmente una resa. E a quella piazza, agli operai di tutta Italia, a chi ancora si batte per l’articolo 1 della nostra Costituzione non possiamo rispondere: ci abbiamo provato. Dobbiamo riuscirci.

Ne va di ciò che ancora siamo e di ciò che potremmo essere in futuro. In caso contrario, ci ridurremmo davvero a essere un'”espressione geografica”, un luogo senza diritti e senza dignità nel quale chiunque può venire a spadroneggiare indisturbato. Qualora dovesse accadere, non ci resterebbe altro da fare che tornare a essere un popolo di migranti.

E questo gli operai, che hanno fatto la fortuna di molteplici nazioni, lo sanno meglio di tutti.


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