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La democrazia e i miliardari

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“Se ho perso Walter Cronkite, ho perso l’America moderata”. Lo affermò Lyndon Baines Johnson nei giorni più tragici della Gierra del Vietnam, durante l’offensiva del Têt, quando era ormai chiaro che non fosse possibile per gli Stati Uniti vincere quel conflitto ma era ancor più chiaro che un’intera generazione, pacifista e contestatrice, avesse voltato le spalle alle mire imperialiste e al bellicismo dissennato di un’amministrazione che sarà ricordata fra le peggiori di sempre, eccezion fatta per l’approvazione del Civil Rights Act con cui il 2 luglio del ’64 pose fine alla disparità di registrazione alle elezioni e alla segregazione razziale.

Era l’America dei Figli dei fiori, dei sogni e delle speranze, del movimento per i diritti civili portato avanti dal reverendo King, di Joan Baez e Bob Dylan, della Summer of love di San Francisco, del cinema dei grandi film di denuncia come “Soldato blu”, emblema della contro-narrazione, e del giornalismo cane da guardia del potere. È in quell’America che crebbero e si formarono due ragazzi destinati a diventare leggende: Bob Woodward e Carl Bernstein, che impararono il mestiere al Washington Post e ancora giovanissimi divennero dei miti, costringendo il successore di Johnson, Richard Nixon, alle dimissioni in seguito alla rivelazione dello scandalo Watergate, ossia di un’attività di spionaggio ai danni del Partito Democratico alla vigilia delle Presidenziali del ’72.
Quando pensavamo all’America, con i suoi difetti, le sue ingiustizie e le sue contraddizioni, da giornalisti, ci consolavamo riflettendo sul fatto che almeno lì nessuno potesse mettere in discussione la libertà d’informazione. Sempre il Washington Post, infatti, prima del Watergate, aveva rivelato l’esistenza dei Pentagon Papers (documenti riservati che attestavano gli orrori compiuti dagli americani in Vietnam), subendo l’ostracismo da parte del solito Nixon e ricevendo, invece, un implicito attestato di stima ad opera di Hugo Black, un giudice della Corte Suprema che in gioventù aveva professato idee conservatrici, salvo poi compiere un’evoluzione personale di tutto rispetto. Scrisse Black nella sentenza relativa ai Pentagon Papers:
“Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno nel governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone e di inviarle all’estero in terre lontane, a morire di febbri straniere e sotto le bombe ed il tiro nemico”.
Editrice di quel Post, magnificamente interpretata da Maryl Streep in “The Post”, era Katharine Graham, simbolo dell’editoria liberal, icona della libertà d’informazione e protagonista di una delle stagioni più significative per l’avanzamento dei diritti e di quell’idea di democrazia, per citare Enzo Biagi, che allora, nonostante tutto, ci rendeva orgogliosi di essere occidentali. Non è che a quei tempi non esplodessero scandali o non si verificassero porcherie immonde; è che esistevano ancora pesi e contrappesi in grado di bilanciare l’arroganza del potere e di controllarne le mosse. Oggi è questo ciò che sta venendo meno, non solo negli Stati Uniti. L’andamento di una globalizzazione dissennata, difatti, ha consentito la nascita di potentati incontrollabili, dovuti a un accumulo di ricchezza nelle mani di pochi eletti che, sostanzialmente, contano più degli stati stessi, riuscendo a determinarne la politica fiscale e persino le decisioni in ambito internazionale (basti pensare alle ingerenze di Elon Musk nel conflitto russo-ucraino). Insomma, siamo di fronte a dei meta-stati, senza regole e senza alcuna possibilità, almeno per il momento, che qualcuno gliene imponga. Un potere assoluto, insomma, sciolto da qualsiasi vincolo, sempre più grande e determinato a controllare le decisioni della politica al fine di volgerle a proprio favore, trasformando quelli che un tempo erano i rappresentanti del popolo in meri burattini al servizio di decisori privati. Non solo: come durante il ventennio nazi-fascista assiatemmo a un patto di mutuo soccorso fra i regimi e i poteri economici dell’epoca, industriale e latifondista, oggi assistiamo a un tacito accordo fra i cosiddetti “Over the top” di una Silicon Valley ormai degenerata e il sovranismo etno-nazionalista di Trump, che talvolta non ha mancato di esprimere un esplicito apprezzamento per i tiranni del “Secolo breve”.
La democrazia, come ha spiegato Robert Kagan, editorialista dimissionario del Washington Post, convintamente conservatore ma in dissenso con il degrado incarnato dal magnate newyorkese, non è un valore che interessi ai nuovi padroni del vapore. Del resto, basta andarsi a rileggere qualche scritto e andare a rivedere le posizioni assunte ai tempi dei regimi del Novecento da alcuni esponenti di punta della Scuola di Vienna e della Scuola di Chicago per rendersi conto che hanno sempre anteposto le regole del mercato e del profitto a quelle di una sana convivenza civile, non disdegnando né il nazi-fascismo, in grado, a loro dire, di tenere a bada il bolscevismo, né le dittature degli anni Settanta, in grado, sempre a loro dire, di preservare il continente latinoamericano dal rischio di una deriva socialista. Smettiamola, dunque, di parlare di incidenti: queste sono scelte. Esiste un capitalismo malato che si è arricchito a dismisura grazie a un modello sociale, economico e di sviluppo sostanzialmente anti-democratico, il quale non si fa problemi ad andare a braccetto con gli autocrati, a patto che consentano ai suoi alfieri di continuare ad arricchirsi senza mai introdurre alcun principio di giustizia fiscale e redistribuzione economica. Quando si arriva a questo punto, dopo un trentennio in cui la sedicente sinistra mondiale non ha fatto altro che avallare le scelte e i dogmi della destra, acquisendone il lessico e modellando le proprie strutture politiche e intellettuali a immagine e somiglianza del nuovo potere egemone, per la democrazia non c’è scampo. E se abbiamo perso anche il Post, con la sua storia, i suoi principî e la sua tradizione liberaldemocratica, abbiamo perso l’America e, con essa, l’intero Occidente. Non dico per sempre ma senz’altro per un lungo periodo.

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