“Il tempo che ci vuole”, di Francesca Comencini, Ita-Fra, 2024

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Con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano

Un padre, una figlia, la loro vita privata ma legata anche, inevitabilmente, alla Storia. Francesca ci appare sempre vicino a papà Luigi, loro due senza nessun altro, dentro una casa vuota che diventa metafora di un rapporto esclusivo, abitato solo dai loro sentimenti. Lui artista educato all’umanità da un forte vissuto personale e attento alla sensibilità dei bambini, che parecchie volte mise in scena. Come in quel famoso Pinocchio televisivo del 1972, ineguagliato e ineguagliabile, sul set del quale la piccola Francesca si immerge nella magia dell’arte mai disgiunta dalla vita. La sua adolescenza vissuta nel clima infuocato dal terrorismo, le incomprensioni con il genitore, la crisi d’identità, l’approdo alla droga. L’aiuto disperato del padre, il venirne fuori grazie a lui, la condivisione dell’arte cinematografica, l’esordio vincente e la chiusura del cerchio, con stavolta Francesca ad aiutare il padre, ormai vinto dal Parkinson, sul suo ultimo set, e pronto ad andare via da questo mondo che tanto aveva contribuito a fare crescere pubblicamente e intimamente. Il primo piano del suo celebre burattino, che Francesca rende poetico, come quello di 50 anni fa, il funerale di Moro genialmente rappresentato come quello di una intera generazione tradita dalle sue stesse illusioni, il vuoto esistenziale della giovane Francesca che si incontra con la tenerezza di un padre che confessa, disarmato, alla figlia le proprie paure presenti e passate. Tutto concorre a immergerci in un racconto familiare aperto a mille inevitabili confessioni. Il loro abbraccio è generazionale, crea una commozione irrefrenabile in chi c’era, un contributo duro ma necessario alla dolcezza della memoria. La stessa che papà Luigi non può non attivare fino alle lacrime, insieme a noi, dinnanzi alla visione del “Paisà” di Rossellini. Vola in cielo verso la sua balena, Comencini, accompagnato dalla figlia, che lo lascia al suo infinito destino per raccontarci questa storia a metà tra la poesia e la realtà, sempre strettamente intrecciate. Prima la vita, poi il cinema, questo il testamento del padre alla figlia. Come la felicità che “L’Atlantide” di Pabst regalò al giovane Luigi in terra di Francia. Gli sguardi nitidi dei due protagonisti, che indicano amore incondizionato, spesso hanno lasciato spazio a distanze sfocate e a ragioni di parte mai risolte, in un film la cui ragione ultima sta tutta nella volontà di una donna, bambina inquieta divenuta adulta tra mille travagli e sofferenze, di regalare traccia di ciò che è stato, e che resterà per sempre, oltre il tempo, sia esso reale o cinematografico.


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