Il linguaggio genera il periodo

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Pare che una volta, erano gli anni di Berlusconi, raccontando le sue esperienze di gioventù, Eugenio Scalfari abbia affermato che chi è stato fascista la puzza la sente prima degli altri e che in quel momento sentisse una grande puzza. Pur non avendo vissuto quell’esperienza e avendo sempre avversato ogni forma di fascismo, avvertiamo la medesima sensazione. E non sono tanto le leggi che vengono approvate in questa fase storica, purtroppo non solo in Italia, a indurci a compiere una simile riflessione quanto il linguaggio che è stato sdoganato. Quando il termine “infame” viene utilizzato con convinzione prima dalla presidente del Consiglio e poi da un importantissimo dirigente della RAI, quando la troupe di Piazzapulita viene tenuta fuori dalla cerimonia di un giornale, in quanto la trasmissione è palesemente invisa a Meloni e al suo entourage, quando i migranti in fuga dalla miseria e dalla guerra vengono apostrofati come “cani e porci”, quando non si prova la benché minima empatia per un ragazzo ucciso a poco più di vent’anni, qualunque reato avesse compiuto in precedenza; insomma, quando si genera una mutazione antropologica senza precedenti del nostro modo di vivere e di essere, non sappiamo quale sia il termine giusto per definire questa deriva ma diciamo che l’affermazione di Scalfari ci torna con prepotenza in mente.

Come insegna Klemperer nel suo capolavoro dedicato alla “lingua del Terzo Reich”, i diluvi della storia nascono sempre dal linguaggio. E il problema, vorremmo che fosse chiaro a chiunque, non è se Meloni in sé ma ciò che potrebbe venire dopo di lei, nello sfacelo di un Paese che non esiste più. Perché la verità bisogna cominciare a dirsela e a scriverla: l’Italia è finita, almeno per come l’abbiamo conosciuta fino a quando ha resistito la tensione resistenziale e anti-fascista che ha caratterizzato i primi decenni del dopoguerra. Oggi è andato perduto anche l’ultimo brandello di quella storia e ci dimeniamo nel vuoto di una società senza valori, senza ideali, senza sogni, senza speranze e senza prospettive, nella quale intere generazioni sono condannate a un precariato esistenziale che ne mina i progetti di vita e si propaga ogni giorno un odio che non sappiamo se sarà possibile contrastare, mancando oltretutto esempi e punti di riferimento.
Confesso, per la prima volta, di aver paura. Non tanto di ciò che potrebbe accadere in futuro ma di ciò che è già accaduto. La sensazione, infatti, è che il nostro domani sia già stato ipotecato, che rimanga ormai poco da fare e che l’unico motivo per cui valga la pena di non arrendersi è il rispetto che dobbiamo alla memoria e al sacrificio di quanti si sono battuti per restituirci la libertà e regalarci una Costituzione che non è retorico definire la più bella e completa del mondo. Per il resto, mai abbiamo avuto una così forte percezione di impotenza, come se tutto fosse destinato a finire e mancassero ormai obiettivi per cui lottare e orizzonti da immaginare. Eppure andiamo avanti, proprio come la troupe di Piazzapulita che coraggiosamente ha svolto il suo lavoro fino in fondo, proprio come Sigfrido Ranucci e la squadra di Report, che ormai in RAI compie un’azione quotidiana di resistenza, proprio come tutte e tutti coloro che, nonostante abbiano convenienza a fare l’opposto, hanno scelto di battersi dalla parte della libertà d’espressione e della dignità della persona, delle parole e delle idee, nel rispetto di tutte le opinioni e, in particolare, delle minoranze.
Sosteneva Pertini che “nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura ma anche senza speranza”. Siamo ridotti così, ma andiamo avanti.

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