Intervista al professor Francesco Pallante, docente all’Università di Torino, tra i massimi esperti di Diritto costituzionale: “L’obiettivo ultimo delle Regioni che spingono di più è quello appropriarsi del cosiddetto residuo fiscale, ma è un vero e proprio assurdo logico perché sono le persone non le Regioni a pagare le imposte, parlare di una ‘secessione dei ricchi’ non è una forzatura”. Anche in Veneto l’Anpi, insieme alle altre associazioni della società civile, prosegue la battaglia contro le norme “spezza Italia”. Atteso per il 12 novembre il giudizio di legittimità costituzionale della legge Calderoli.
Il tema dell’Autonomia regionale differenziata costituisce una questione politica scottante in tutto il Paese, ma ancor di più in una Regione come il Veneto, che fa della richiesta di maggiore autonomia il suo cavallo di battaglia e non da oggi, essendo un territorio con un forte sentimento autonomista che data nel tempo e si colloca al confine con due Regioni a Statuto Speciale, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Vorrei soffermarmi a riassumere gli aspetti cruciali della legge e lo stato dell’arte, rispetto alla battaglia ideale e politica che Anpi ha tra le sue finalità, la difesa e l’attuazione della
Costituzione, e porta avanti da alcuni anni contro l’Autonomia differenziata. Essa ha infatti manifestato la contrarietà alla sua attuazione in diverse risoluzioni del Comitato Nazionale e nel documento congressuale del 2022, e ha promosso nel tempo numerose iniziative. Una contrarietà non all’autonomia regionale in sé ma all’autonomia perseguita dalla legge Calderoli, al regionalismo differenziato, competitivo ed egoistico che si pone in contrasto con il dettato costituzionale, con i principi sanciti nella Costituzione del 1948. I Costituenti erano, infatti, favorevoli all’autonomia e al decentramento amministrativo, ma nell’ambito dell’unità e indivisibilità della Repubblica, come sancito dall’art. 5 e nel rispetto degli artt. 2 e 3 della Carta che disegnano il quadro di un regionalismo solidale e cooperativo. Un quadro in cui vengono da una parte garantiti i diritti inviolabili di tutti i cittadini indipendentemente dal territorio in cui essi risiedono e dall’altra sanciti doveri di solidarietà inderogabile tra connazionali e l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale ai fini del pieno sviluppo della persona e della partecipazione dei “lavoratori” all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Il possibile trasferimento di alcune materie e funzioni ad esse inerenti all’interno di una interpretazione restrittiva dell’art. 116, 3 c. della Costituzione, introdotto dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001, va circoscritto a esigenze specifiche e motivate del territorio e del suo contesto sociale, geografico, economico. E potrebbe darsi solo nell’ambito della nostra forma di Stato, cioè nel rispetto costituzionale del Parlamento e della rappresentanza nazionale. Al contrario, la legge Calderoli limitandosi di fatto a un rinvio generico alla perequazione e a misure di promozione per rimuovere gli squilibri tra territori, senza individuare risorse aggiuntive, affermando anzi il principio dell’invarianza finanziaria, disegna un regionalismo appropriativo di tutte le materie astrattamente attribuibili, di tutte le competenze, poteri e risorse connessi, in particolare del cosiddetto residuo fiscale (si veda sul punto l’intervista al professor Pallante che pubblichiamo di seguito, ndr), che mette in pericolo l’universalità dei diritti così come l’unità e lo sviluppo dell’intero Paese.
Va inoltre evidenziata la grande mobilitazione che si è sviluppata dopo l’approvazione definitiva della legge e il successo straordinario, imprevisto, della raccolta di circa 1.300.000 firme, tra cartacee e online, per la richiesta di un referendum abrogativo della legge. A questo proposito va sottolineato il contributo anche dei/delle militanti del territorio metropolitano veneziano che hanno allestito numerosi banchetti invitando i cittadini a firmare. Un contributo di 4.545 firme cartacee su un totale di 19.044 raggiunto nel Veneto (per complessive 40.578 firme tra cartacee e online). Ciò è stato possibile grazie alla costituzione nel mese di luglio di un comitato referendario territoriale, promosso dalla Cgil e dall’Anpi provinciale e che ha visto l’immediata e attiva partecipazione di numerose associazioni, tra cui Compagno è il mondo, l’associazione dei Giuristi democratici di Venezia, Libera, Articolo 21 e di quasi tutte le forze politiche di opposizione. Non va trascurata la richiesta di referendum abrogativo, totale e in subordine parziale, da parte di 5 Regioni: Campania, Sardegna, Toscana, Puglia ed Emilia Romagna. A essa si aggiungono le impugnazioni dinanzi alla Consulta ai sensi dell’art. 127 della Costituzione da parte delle stesse Regioni (fatta eccezione per l’Emilia Romagna) della legge Calderoli, ai fini di una declaratoria di illegittimità poiché ritenuta lesiva della loro sfera di competenza. È inoltre importante sottolineare la decisione del tutto condivisibile della Corte costituzionale di anticipare al prossimo 12 novembre il giudizio di legittimità costituzionale della legge Calderoli rispetto a quello sull’ammissibilità del referendum abrogativo che per legge la Consulta deve fissare entro il 20 gennaio del 2025. Infatti, se la Corte dovesse dichiarare l’incostituzionalità della legge Calderoli nella sua interezza, la richiesta di referendum abrogativo sarebbe di fatto superata. Lo scorso 3 ottobre ha preso avvio il confronto tra il governo e quattro Regioni – Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria – che mirano a raggiungere un’intesa finalizzata alla maggiore autonomia, per il momento limitata a 9 materie sulle 23 teoricamente attribuibili, su cui otterrebbero potestà legislativa esclusiva. Si tratta delle materie per le quali, a norma della stessa legge Calderoli, non dovrebbero essere individuati i Livelli Essenziali di Prestazione (Lep) relativi ai diritti che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi della lettera m dell’art.117 Cost. (anche su questo punto si veda l’intervista al professor Pallante). Di quali materie si tratta? Tutte di grande rilevanza. È bene averne una qualche contezza. Le materie Lep sono in tutto 14 di cui 12 di legislazione concorrente tra Stato e Regione (art.117, c.3) e 2 di legislazione esclusiva dello Stato (art.117, c.2) e cioè le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e beni culturali. Tra le materie concorrenti: tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; tutela della salute; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia. Le materie non Lep sono 9, anche esse di legislazione concorrente tra Stato e Regione previste nell’art.117 c.3, a eccezione della organizzazione della giustizia di pace. Tra queste: rapporti internazionali e con la UE della Regione, commercio con l’estero, protezione civile, previdenza complementare e integrativa. A questo proposito, nel ricorso per illegittimità costituzionale alla Corte Costituzionale da parte della Regione Puglia si evidenzia la violazione dell’art.117 della Carta, sottolineando che l’integrale devoluzione alle Regioni di funzioni in tutte le materie concorrenti, comporterebbe la sostanziale scomparsa della stessa potestà legislativa dello Stato che è invece necessaria per individuare i criteri e gli obiettivi di interesse generale la cui mancanza porterebbe di fatto a una frammentazione insanabile dell’ordinamento giuridico. Il Veneto ha richiesto la devoluzione di tutte e 9 le materie non Lep, nonostante alcune di esse, come il commercio estero e la protezione civile, abbiano scatenato forti contrasti all’interno della maggioranza di governo, da parte del ministro degli Affari esteri, Antonio Tajani, e del ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci. Il primo, ponendo il veto sulla delega dell’export, ha sottolineato che la regionalizzazione del commercio estero e delle relazioni internazionali comporterebbe il forte rischio di arrecare danno alla reputazione internazionale dell’Italia, alle aziende e al made in Italy. Il ministro Musumeci, a sua volta, ha affermato che la protezione civile ha bisogno di un coordinamento nazionale trattandosi di sicurezza collettiva e che non possono essere delegati i poteri della protezione civile alle Regioni perché è compito dello Stato erogare i ristori e che quindi la questione non può che essere gestita centralmente. In ogni caso sia il presidente del Veneto, Luca Zaia, sia il ministro Calderoli si sono espressi con toni entusiastici rispetto all’avvio del negoziato. Zaia ha affermato che si apre finalmente l’occasione per provare con i fatti che l’autonomia sarà una grande opportunità per l’intero Paese. Calderoli ribadisce che l’autonomia è uno strumento che aumenterà l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa e che non toglierà nulla alle altre Regioni. Ma nonostante i toni quasi trionfalistici, e la consueta “narrazione propagandistica”, trapela una certa cautela, il desiderio di rassicurare. Si aggiunge infatti che si tratta di un percorso utile, di buon senso, che non si andrà certo a scardinare i palazzi dello Stato, che non si tratta di una secessione dei ricchi, né di un atto di egoismo che spaccherà l’Italia. Emerge anche dalle parole di Zaia l’attenzione verso un’efficace azione sul piano della comunicazione. In attesa del giudizio della Consulta dovremo come Anpi (in rete con tutte le altre organizzazioni contrarie all’autonomia differenziata) continuare con l’attività di informazione sul pericolo di una cristallizzazione se non di un aumento delle disuguaglianze nell’accesso ai servizi fondamentali tra i cittadini delle Regioni con minore reddito e minore capacità fiscale del Sud e dell’aree interne e quelli dei territori più ricchi del Nord, evidenziando altresì che il regionalismo differenziato mette a rischio anche il lavoro e l’attività delle imprese, la gran parte delle quali è situata al Nord, e lo sviluppo dell’intero Paese. Sarà necessario sviluppare la consapevolezza tra i cittadini del Nord che l’autonomia differenziata non è la risposta adeguata all’impoverimento subito negli ultimi trent’anni anche della classe media settentrionale, convinta illusoriamente della necessità di sganciarsi dalla zavorra del Sud che impedisce alla locomotiva del Nord di poter correre. Occorre invece far comprendere che esiste una forte interdipendenza nella domanda interna tra le Regioni del Sud e quelle del Nord e inoltre che quando cresce il divario tra Nord e Sud cresce anche il divario tra il Nord e le regioni europee. Per ricominciare a crescere deve crescere il sistema Paese. Con la frammentazione delle normative a livello regionale lo Stato si indebolirebbe e verrebbe a perdere potere negoziale rispetto alle grandi scelte di politica economica ai tavoli europei e internazionali con conseguenze negative sulle nostre imprese che si troverebbero svantaggiate nella competizione internazionale, private di politiche pubbliche di sostegno a livello nazionale. Per restare competitive verso l’estero, con la fine della contrattazione collettiva nazionale, le imprese potrebbero ricollocarsi in regioni dove gli standard retributivi, di sicurezza sul lavoro, per la salvaguardia dell’ambiente fossero più bassi. La spada di Damocle della delocalizzazione interna potrebbe comportare salari inferiori e minori tutele anche per i lavoratori del Nord. In sostanza una concorrenza interna tutta giocata al ribasso regolativo e salariale.
Pur non negando sacche di inefficienza nelle Regioni meridionali, ecco qualche dato sulla disuguaglianza per sfatare lo stereotipo antropologico del Sud parassita del Nord. In base a una analisi Svimez 2023, per carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola rispetto al 48% del Centro Nord. Gli allievi della scuola primaria frequentano mediamente quattro ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro Nord. La differenza, su base annua è di circa 200 ore in meno di diritto allo studio. Ancora un dato: la spesa sociale pro capite nel Nord risulta di 19.000 euro per cittadino, nel Sud di 14.500. Mi pare che i dati parlino da soli.
Maria Cristina Paoletti, presidente provinciale Anpi Venezia, componente associazione Giuristi Democratici – Venezia
Qui l’intervista al professor Pallante
Professor Pallante, lei è stato nostro graditissimo ospite in un convegno a Mestre sui pericoli dell’autonomia differenziata, all’indomani della consegna in Cassazione di circa 1.300.000 firme raccolte per richiedere il referendum abrogativo della cosiddetta legge Calderoli, che detta disposizioni per attuare il regionalismo differenziato, previsto dall’art.116, terzo c. della Costituzione e introdotto dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001, approvata sostanzialmente con i voti dei parlamentari del solo centro-sinistra, che lei ha definito “apprendisti stregoni”. Può chiarirci la ragione di questa definizione?
La riforma costituzionale del 2001 è criticabile tanto nel metodo, quanto nel merito. Per la prima volta, la Costituzione fu modificata con i voti favorevoli della sola maggioranza, violando l’aureo precetto per il quale sulle regole del vivere in comune si decide in comune. Fu la rottura di un tabù, cui fecero seguito le riforme di parte tentate da Berlusconi nel 2006 e da Renzi nel 2016. Come se non bastasse, il referendum costituzionale, pensato come estrema risorsa a disposizione di chi non voleva la riforma, fu utilizzato non in senso oppositivo, bensì confermativo, stravolgendone il senso. Un uso ratificatorio di quanto già deciso dal Parlamento, dal sapore plebiscitario e populista. Quanto al merito, basti considerare che per definire con precisione i termini dei nuovi poteri attribuiti alle Regioni, la Corte costituzionale ha dovuto pronunciare ben 1.800 sentenze! Nella storia della Repubblica mai un intervento sulla Costituzione è stato dapprima scritto e di seguito attuato così male. E poi c’è la questione del regionalismo differenziato previsto dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione introdotto in quell’occasione: una norma che fin da subito Leopoldo Elia, già presidente della Consulta, denunciò come suscettibile di scardinare il principio della rigidità della Costituzione, perché in astratto idonea a riscrivere completamente le attribuzioni dello Stato e delle Regioni aggirando le procedure previste dall’articolo 138. Non si tratta di un dettaglio: la rigidità è la principale caratteristica delle Costituzioni del Novecento.
Condivide la configurazione dell’attuazione della legge Calderoli come una “secessione dei ricchi”?
Sì, la fortunata formula proposta da Gianfranco Viesti fin dal 2019 coglie perfettamente nel segno. Come dimostrano i documenti – accordi Gentiloni, bozze d’intesa Conte I, legge Calderoli – e le numerose dichiarazioni pubbliche dei principali protagonisti di questa vicenda – da Zaia a Fontana allo stesso Calderoli – l’obiettivo ultimo delle Regioni che chiedono l’autonomia differenziata è appropriarsi del cosiddetto residuo fiscale, vale a dire delle risorse eccedenti pagate in tasse dalla Regione rispetto alla spesa pubblica che riceve. Si tratta, tuttavia, di un vero e proprio assurdo logico, perché le persone, non le Regioni pagano le imposte e beneficiano della spesa pubblica, a nulla o quasi rilevando il luogo in cui risiedono. Rivendicare il residuo fiscale significa, in realtà, mirare a circoscrivere la solidarietà tributaria ai corregionali, rifiutandola ai connazionali: la conseguenza è la sostituzione del popolo regionale a quello statale, una secessione in senso tecnico.
Il 3 ottobre scorso, i presidenti o i loro vice di Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, si sono incontrati con il ministro Calderoli per dare avvio alla trattativa per le intese Governo-Regione e ottenere maggiore autonomia, con potestà legislativa esclusiva, sulle materie cosiddette non Lep, 9 su 23 (commercio estero, protezione civile, previdenza complementare ecc.), ossia su quelle materie per le quali, a norma della stessa legge Calderoli, non è prevista “la determinazione” dei Livelli Essenziali di Prestazione (Lep), relativi ai diritti che dovrebbero essere garantiti su tutto il territorio nazionale, prima che siano attribuite le ulteriori competenze e relative risorse sulle 14 materie Lep (tutela della salute, istruzione, lavoro ecc.). Perché i Lep possono considerarsi solo uno “specchietto per le allodole”? Esiste un fondamento giuridico per distinguere, come fa la legge Calderoli, tra materie Lep e non Lep?
La Costituzione prevede che spetti alla competenza esclusiva dello Stato definire i Lep in tutte le materie che hanno a che vedere con i diritti civili e sociali (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.). Non è prevista nessuna distinzione tra materie Lep e non Lep: se sono coinvolti i diritti, devono essere definiti i Lep. Sotto questo profilo, la legge Calderoli opera una distinzione del tutto arbitraria. Più in generale, emergono due problemi. Anzitutto, in alcune materie definire i Lep si sta dimostrando più complicato del previsto, al punto che si sta ripiegando verso l’individuazione di Lep non prestazionali: Livelli essenziali delle prestazioni… non prestazionali! Un paradosso, che avrà per esito la mancata tutela effettiva dei diritti. In secondo luogo, definire i Lep serve a poco se poi non si procede a definire il costo standard derivante dalla loro erogazione, in modo che le Regioni possano ricevere tutte lo stesso finanziamento ed erogare le stesse prestazioni. Ma anche in questo caso sono all’opera le manipolazioni, perché si afferma che lo stesso costo standard può essere differenziato (uno standard… differenziato!) in base al clima, al costo della vita, alle condizioni socio-demografiche. Si finirà col concludere che tutto va già bene così com’è, negando ogni esigenza di perequazione e maggior finanziamento a beneficio del Sud, nonostante l’ampio divario esistente nella spesa pubblica pro-capite.
Cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi, sia sotto il profilo del referendum abrogativo sia delle impugnazioni davanti alla Corte costituzionale della legge Calderoli da parte di alcune Regioni?
È difficile fare previsioni. Condivisibilmente, la Corte costituzionale ha deciso che affronterà per primi i ricorsi regionali che denunciano l’incostituzionalità della legge Calderoli. Se dovesse annullare in tutto o in parte la legge, alla Corte di Cassazione spetterà quindi dichiarare superato o riformulare il quesito referendario, che, in quest’ultimo caso, dovrà comunque poi passare al vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale. I sondaggi relativi al voto referendario sono piuttosto incoraggianti: già oggi, senza che la campagna elettorale sia iniziata, il quorum sembra raggiungibile, con la quasi totalità di chi si dice intenzionato a partecipare al voto favorevole all’abrogazione. Poiché tra gli ostili alla legge vi sono anche molti elettori dei partiti di destra, la mia impressione è che se la Corte costituzionale annullasse la legge, alla fine per la maggioranza potrebbe essere un modo per uscire da una situazione potenzialmente imbarazzante senza assumersene la responsabilità politica.
Se si dovesse arrivare allo svolgimento del referendum abrogativo, la configurazione dell’attuazione della legge Calderoli come “una secessione dei ricchi”, potrebbe essere un argomento sostenibile per indurre alle urne anche quella maggioranza di cittadini, che per esempio in Veneto ha sempre guardato con favore all’autonomia, a “trattenere al Nord i soldi del Nord”, a mantenere sul territorio regionale il “residuo fiscale”? Come sfatare lo stereotipo antropologico di un Sud parassita del Nord e dell’inefficienza della sua classe dirigente, quando non anche collusa con la criminalità organizzata?
Molte analisi insistono sui pericoli che l’autonomia differenziata comporterebbe anche per le Regioni settentrionali: Banca d’Italia, Confindustria, Commissione europea, Ufficio parlamentare di bilancio, hanno avanzato critiche circostanziate che insistono sui rischi di indebolimento del sistema imprenditoriale del Paese, in parte importante basato al Nord. L’indebolimento dello Stato lascerebbe le imprese italiane “scoperte” nella competizione internazionale, inducendo i datori di lavoro a cercare di mantenersi concorrenziali colpendo al ribasso le condizioni di lavoro dei dipendenti. Alla fine, sarebbe un danno per entrambi i lati del rapporto di lavoro. Quanto al Sud, sicuramente esistono inefficienze e clientele che andrebbero superate, ma non è che il Nord sia impermeabile al condizionamento illecito della politica: dalle “mutande verdi” di Cota, alla sanità di Formigoni, al Mose di Galan, al porto di Toti non c’è praticamente Regione del Nord che possa vantare il primato della propria specchiata moralità.