Un’intervista volante, di quelle catturate nelle strade sull’onda della più stretta attualità, per sondare idee, umori e sentimenti dei cittadini. Per aver detto la sua – al microfono di un giornalista di un canale YouTube – Dilruba Kayserilioglu, di Izmir, è finita in carcere con l’accusa , e lo stigma, di “avere insultato il presidente e avere incitato l’opinione pubblica all’odio e all’ostilità”. E’ successo ai primi di agosto: il governo turco aveva bloccato l’accesso a Instagram , reo di aver censurato i post di condoglianze per la morte del leader di Hamas Haniyeh.
Sulla messa al bando del social, Dilruba era andata dritta al punto, senza troppi giri di parole: “Nel 21esimo secolo consegnare la Repubblica turca nelle mani di un solo uomo, significa dargli carta bianca. Significa abdicare ai propri diritti in favore di un uomo che si crede al di sopra di Dio”..
Un guizzo di libertà pagato a caro prezzo. Arrestata il 12 agosto, e trascinata in tribunale, la giovane donna è stata rilasciata dopo 17 giorni. Ma la sua odissea non è finita. La Procura generale di Izmir è tornata alla carica con un atto d’accusa – insulto al presidente – che prevede da uno a quattro anni di carcere. Suo malgrado Dilruba è diventata un simbolo di quella bandiera della libertà d’espressione che la Turchia ha ormai ammainato. E che avvocati e difensori dei diritti civili cercano invano di risollevare.
“Siamo di fronte a un sopruso – è insorto Veysel Ok, condirettore della Media and Law Studies Association, difensore di molti giornalisti sbattuti in carcere, a cominciare dal corrispondente del Die Welt, Deniz Yucel – Le opinioni, chiunque le esprima, possono piacere o non piacere. Ma non possono certo essere perseguite. Non esiste alcuna base legale per avviare un procedimento penale”.
Nella Turchia precipitata al 158esimo posto nella classifica annuale di Reporter senza frontiere , a sferrare l’ennesimo colpo di accetta sulle libertà civili è stato il varo , due anni fa, della cosiddetta “legge sulla disinformazione”.
Che ha rafforzato il controllo del governo sulle piattaforme social e sui portali d’informazione. Criminalizzando la condivisione di informazioni ritenute false (un semplice retweet può costare tre anni di carcere). Soffocando le voci di critica e dissenso.