“Cimone amava la fanciulla greca. Invero ella era bellissima: era l’immagine della forte e vigorosa bellezza che ebbero Giunone e Minerva, cui veniva rassomigliata. La fronte bassa e limitata di dea, i grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, la viva candidezza della carnagione, lo stupendo accordo della grazia e della salute in un corpo ammirabile di forme, la composta serenità della figura, la rendevano tale …” (”Leggende napoletane”, di Matilde Serao).
Con Parthenope, nelle sale cinematografiche dal 14 ottobre prossimo, distribuito da Piperfilm e Fremantle, già in concorso all’ultimo festival di Cannes, Paolo Sorrentino ci riporta a Napoli, la sua città Natale, e lo fa con uno sguardo disincantato, lo stesso che abbiamo già visto in “E’ stata la mano di Dio”: «Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città».
Un percorso, forse, non ancora concluso, un fil rouge che testimonia un amore contrastato, malinconico, verso una città millenaria, che suscita amore e odio, e dalla quale, purtuttavia, non ci può distaccare. «Napoli è un posto bellissimo per una certa fase della vita, ma poi questa fase potrebbe diventare meno determinante e meno importante quando si cresce….Come molti napoletani, anche io sono tra quelli che costantemente ritornano e fuggono» … un luogo che continua a esercitare un profondo potere su di lui come artista e regista, ha dichiarato Sorrentino In questa occasione, per farlo, il regista prende a prestito “Il mito” di Parthenope – ed era proprio questo il nome di Napoli alla fine dell’ VIII secolo a.C. – secondo la visione di Matilde Serao che ne fa una città unica al mondo, con le sue eterne contraddizioni, i suoi colori, la sua allegria, ma anche le sue miserie: “Napule è addore e mare, na’ carta sporca” (cit. Pino Daniele). Ma è anche la città le sue radici affondano in un passato ricco di leggende, di miti, come quello, appunto, della dea Parthenope (la sirena che si fece morire proprio nelle acque di Castel dell’Ovo mortificata dall’astuzia di Ulisse che era sfuggito al potere del suo canto), ed è nelle sue acque cristalline che tutto è iniziato. Le sirene, si sa, non sono soltanto figure mitologiche ma sono anche simbolo della seduzione intellettuale.
Un viaggio nel tempo, dunque, quello di Sorrentino, che va dal 1950 al 2023.
Parthenope è Napoli! Una donna stupenda (Celeste Dalla Porta, al suo debutto cinematografico), ma è anche una dea eterea, conturbante, a cui nessuno può resistere: siano essi prelati, scrittori, docenti universitari, boss della camorra. Anche suo fratello Raimondo ne è profondamente innamorato, un amore ricambiato. Ma anche questo è un amore malinconico: l’unico strumento per non soccombere alla vita. “A cosa stai pensando?” è la domanda ricorrente, senza risposta, che tutti rivolgono a Parthenope.
Ed è proprio a Parthenope che Sorrentino affida il suo sguardo sulla città, sulle sue multiformi facce; uno sguardo ammaliante, confuso, sognatore, che “scioglie il sangue int’e vene”, e che può far male.
Parthenope è una donna libera e spontanea, che non giudica mai, che non fa mai domande, che non ha risposte: “io non so niente ma mi piace tutto“; che vive la propria giovinezza in maniera spensierata, come i suoi amori. Incerta anche sul lavoro da intraprendere, dapprima tentando una fascinosa ed effimera carriera attoriale: conturbante l’incontro con l’agente delle dive Flora Malva, (Isabella Ferrari) – una donna col viso velato perché “un chirurgo brasiliano l’ha rovinata” – e poi quello con la diva Greta Cool (Luisa Ranieri) che le spegnerà ogni entusiasmo, e poi quella universitaria, che le aprirà le porte dell’Accademia, con i primi esami in antropologia con il Prof. Marotta che la prenderà sotto a sua ala protettiva (Silvio Orlando).
Una vita piena di incontri la sua, più o meno significativi. Toccante quello a Capri con John Cheever (un bravissimo Gary Oldman, peraltro, dai tratti molto simili al personaggio interpretato), di cui ha letto tutte le opere, un uomo maturo di cui potrebbe innamorarsi, ma questi: “Non voglio rubare neanche un momento della tua giovinezza…. La tua bellezza può aprire tutte le porte”, o come quello con il camorrista che la condurrà per mano nei bassi napoletani tra le meretrici e il degrado. O ancora, strepitoso l’incontro, quasi “antropologico”, con il cardinale Tesorone (Peppe Lanzetta), alle cui mani è affidata l’ampolla del miracolo di San Gennaro, che ne custodisce il tesoro; un incontro grottesco e dissacratore: “ A Napoli il profano è il serbatoio del sacro” dirà Sorrentino.
Ma anche la giovinezza conturbante di Parthenope è destinata ad evaporare, un soffio, una brezza di breve durata.
Ed è così che ritroviamo una Parthenope oramai matura, diventata nel frattempo una professoressa di antropologia (Stefania Sandrelli), che dopo quarant’anni di insegnamento a Trento (ha lasciato Napoli nel 1983) è di ritorno nella sua Napoli, una città sempre uguale a sé stessa.
“Non c’è né rimpianto, né nostalgia, né malinconia, c’è il passaggio dell’età”… “La verità non fa parte della giovinezza, è un luogo dove si ha a che fare con l’insincerità, si ha a che fare con il sogno, si fa un racconto epico di sé, si balla da soli davanti lo specchio. Questo racconto si interrompe quando si entra nella fase etica (come la chiamava Kierkegaard) e si esce da quella estetica, quello che sei non ti piace e fai tentativi per uscire da te stesso, senza riuscire, fino a quando finisci per accettarti. E magari riesci ancora a stupirti” (P. Sorrentino).
Dei suoi quarant’anni trascorsi a Trento non sapremo nulla, ma ritroveremo ancora il suo sguardo affacciato sul golfo di Napoli, uno sguardo sempre ammaliante. E di lì a poco, sulle note struggenti di “Che cosa c’è” di Gino Paoli, calerà mestamente il sipario.
Parthenope è un film in cui viene celebrato il mistero della giovinezza, che fa da contraltare a quello di una città sospesa, in cui tutto è possibile, in cui nessuno è responsabile di alcunché, una città senza tempo.
Un film in cui l’antropologia viene usata come metafora della vita. Ma cos’è l’antropologia? E’ la domanda che Parthenope pone quasi ossessivamente al Prof. Marotta, dal quale si aspetta una risposta non accademica: “L’antropologia è vedere e al tempo stesso è difficilissimo vedere perché è l’ultima cosa che si impara quando inizia a mancare tutto il resto”.
E forse l’unica strategia è quella di guardare a Napoli con gli occhi di una giovane e bellissima donna, Parthenope, con il suo sguardo quasi sognante, ma anche disilluso e dubbioso, su ciò che la circonda, tra realtà e fantasia, tranne quando i suoi occhi si troveranno di fronte quella strana, gigantesca, creatura fatta di acqua e sale, come il mare, in cui il suo sguardo sembra ritrovare piena consapevolezza, forse amore.
Da segnalare la prova convincente, al suo debutto, di Celeste Dalla Porta, a suo agio nel personaggio: “Prima di iniziare a girare il film ero ancora in una fase giovanile e spensierata della mia vita. Fare l’attrice era ancora una specie di sogno». … “Girare il film è stato come lasciare andare la bambina che era in me» ha dichiarato l’attrice.
Memorabile il breve ma incisivo ruolo di Gary Oldman nei panni di uno scrittore alcolizzato: «Nella mia vita, quando ero più giovane, c’erano caos, dolore e molti drammi. Non è un segreto che fossi alcolista e ho appena festeggiato 20 anni di sobrietà» … «Accettando questo ruolo, ci sono cose che ho capito istintivamente. Quando Paolo mi ha detto: “Voglio che interpreti il poeta triste, malinconico e ubriacone”, ho detto: “So di cosa stai parlando”» ha dichiarato l’attore.
Bellissima la fotografia, con delle inquadrature strepitose. Un pò ridondante, a tratti, la sceneggiatura. Bellissime le musiche: da ricordare, oltre a Riccardo Cocciante e Gino Paoli anche quelle di Enzo Avitabile.