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La Nuova Sardegna: eutanasia di uno storico quotidiano indipendente

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Tsunami su un’isola e il suo mondo dell’informazione. Con l’impiego di una rotativa su Cagliari diversa dalle macchine dello stabilimento sassarese di Predda Niedda, e con il licenziamento o il trasferimento forzato di 13 operai, per La Nuova Sardegna si chiude un ciclo. Non è un problema che riguarda solo il giornale fondato nel 1891 da un gruppo di avvocati mazziniani tra i quali spiccava il nonno omonimo di Enrico Berlinguer. Non è un problema di campanili tra città. E non è un problema esclusivo legato a omessi rilanci d’investimento rispetto alle promesse imprenditoriali. Gli ultimi provvedimenti – decisi dalla società editrice di gestione, la Sae Sardegna – fanno seguito al massiccio pensionamento anticipato di numerosi redattori e alle dimissioni annunciate da impiegati dell’amministrazione. Di più: il nuovo centro stampa a giorni in uso da parte dello stesso quotidiano farà riferimento a una società tipografica di Elmas, nell’hinterland del capoluogo di regione controllata dal gruppo Unione Sarda, da sempre diretta rivale della Nuova. Come spesso nei passati decenni, le linee editoriali di questi giornali sono differenti. E oggi antitetiche sui temi della transizione energetica per via degli interessi contrapposti delle due compagini di azionisti, impegnate anche in questi settori.

Nulla, tuttavia, succede per caso. Ma le notizie sulla sorte dell’eredità ricevuta nel 1947 da chi fece rinascere La Nuova dopo la soppressione disposta dal fascismo nel 1926 devono fare riflettere. Per quale ragione? Perché il patrimonio del secondo quotidiano storico dell’isola è stato via via impoverito, ceduto a pacchetti, disperso, suddiviso tra società create ad hoc. Il che è devastante, incredibile, per un giornale arrivato ad avere quasi 200 dipendenti, a vendere tra 75mila e 60mila copie (1988-2008) e a tirarne fino a 100mila nel giorno medio. Organo d’informazione territoriale privato al servizio del pubblico. Una testata che, grazie a direzioni illuminate, poligrafici, redattori, impiegati e addetti alla diffusione nei 35 anni della gestione Caracciolo/Espresso, ha fatto macinare alla proprietà utili equivalenti a oltre 100 milioni di euro al netto di tasse e di imponenti investimenti tecnologici. Ma oggi questo stesso quotidiano viene dichiarato in crisi dagli attuali azionisti. Tra ricorsi a cassa integrazione, pensionamenti anticipati, trasferimenti forzati di personale. Con l’alibi inaccettabile della carta stampata messa in difficoltà generale dall’avanzata del web: come se il giornalismo e l’editoria fossero finiti con la trasformazione dei mezzi di produzione. Ecco qualche dato per capire meglio.

A inizio 2022, con un colpo a effetto, La Nuova passa da Gedi/Elkann alla Sapere Aude Editori Sardegna, emanazione della Sae nazionale in terra d’Ichnusa: compra il 51 per cento il suo patron, Alberto Leonardis, cinquantenne finanziere abruzzese da breve nel campo Già all’epoca dell’acquisto Leonardis e gli altri rappresentanti del gruppo promettono radicamento in Sardegna e strategie di rilancio. Ma sorgono dubbi perfino sulla mancata pubblicizzazione dei cespiti patrimoniali al centro della trattativa per La Nuova: immobili, macchinari, impianti, attrezzature tecnologiche, depositi e così via. Omissis registrati, quantomeno, nelle trattative sindacali che a Sassari accompagnano la vendita. Non saranno date risposte precise nemmeno dal gruppo venditore, cioè Gedi. Il timore di alcuni dipendenti è che pure La Nuova possa trovarsi al centro di guai in parte simili a quelli che avevano scosso le redazioni “ex cugine Gedi” con cui era stato condiviso un lungo percorso nella Finegil di Caracciolo/Scalfari. Però la Sae Sardegna rifiuta ipotesi pessimistica e dà altre garanzie formali di ripresa. Tutte assicurazioni che però allo stato risultano smentite dai fatti.

Di questi ultimi mesi, dunque, le notizie filtrate dal giornale, ora diretto da Giacomo Bedeschi, su stati di crisi, allarmi economici, prepensionamenti. Ma sempre nell’indifferenza della politica. E sempre tra apparenti (quantomeno viste dall’esterno) acquiescenze di sindacati e di forze sociali impegnate a ricevere una corretta informazione. Quarant’anni prima, all’acquisto della Nuova da parte del principe Caracciolo, si erano interessati della vendita i membri di due distinte commissioni del Consiglio regionale, leader come Cossiga e Berlinguer, esponenti del ceto regionale come Mario Segni, Armandino Corona, Alessandro Ghinami, Angelo Rojch. Se è prematuro dare giudizi, un aspetto va però sottolineato: sarà pure una delle tante aziende comprate e vendute più volte, ma La Nuova non è una fabbrica di scatolette. Produce news. Resta un giornale promotore di confronto e spirito pubblico, di autonomia e responsabilità civica per una Sardegna rispettata. Di più: le sue redazioni, tra le regole d’ingaggio, sono impegnate a svolgere un diritto/dovere garantito dalla Costituzione. Forse c’è un motivo, allora, se in questa fase pochi sembrano ricordare che il quotidiano è un patrimonio lasciato all’isola dai fondatori: quei repubblicani che credevano nel progresso, nella giustizia, nella libertà di stampa. Che siano legati, questi riserbi, a una precisa circostanza? Magari al fatto che l’eredità avrebbe dovuto essere accettata dalla società civile sarda con un beneficio d’inventario sui futuri progetti editoriali? La stessa società che quel giornale – non l’azienda – aveva ricevuto in un lascito trasparente nel 1891 come strumento per un’informazione legata al territorio. Informazione aperta a tutti ma al servizio di nessuno. Nessuno, almeno, diverso dai lettori.


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