La mostruosa macchinetta chiamata «tax credit» è entrata in scena, dopo una lunghissima attesa, seguita agli annunci incomprensibilmente ottimistici del ministero della cultura. E, così, il settore già in gravi difficoltà è arrivato ai titoli di coda. Proprio ai titoli di coda fa riferimento il nome di una delle associazioni che hanno manifestato contrarietà rispetto ad un testo tanto complicato quanto segnato da un indirizzo neoliberista: chi è ricco si arricchisca ulteriormente, chi è meno abbiente e relazionato soffra pure in silenzio.
Diverse soggettività critiche, non adeguatamente ascoltate né dalle tradizionali organizzazioni sindacali né da un «campo largo» piuttosto distaccato dalla materia, si sono appalesate e non si può escludere che divampino come è stato a Hollywood, mutatis mutandis.
La misura in questione ha origine in un’altra stagione, quella che vide l’allora ministro Dario Franceschini inserire nella legge di riforma a sua firma del 2016 un articolo – il n.15- che costituisce una sorta di prolegomeno del pasticcio attuale. In fondo, la storia assomiglia a quella dell’Autonomia differenziata voluta da Calderoli, che è la forma degenerativa di un pasticcio del 2001 quando fu riscritto il Titolo V° della Costituzione.
Il filo che unifica l’impianto normativo dell’immaginario cinematografico e audiovisivo fin dal tempo dell’allora titolare del dicastero Giuliano Urbani in età berlusconiana è costruito su una sorta di estremismo mercantile, quasi darwiniano nel separare chi ha e chi non ha. Le prospettive di una innovazione creativa sono ridotte all’osso, lasciate all’iniziativa o alla genialità dei singoli eredi di una scuola invidiata in tutto il mondo.
Rispetto agli articolati precedenti, ora le caratteristiche richieste per l’accesso nel vasto campo delle opere cinematografiche volte al mercato si fanno assai stringenti: la copertura con risorse di origine privata deve essere di almeno il 40% del costo di produzione e serve un accordo vincolante con una delle primarie società di distribuzione. Tra l’altro, quest’ultimo criterio sancisce o la sudditanza all’antico duopolio televisivo di Rai e Mediaset ovvero alle imprese sovranazionali. E questo si accompagna allo scivolamento sancito per ciò che concerne le opere televisive e web verso il predominio delle piattaforme.
Qualcosa si prevede per i documentari, è vero. Ma stiamo parlando di quote residuali rispetto ai quasi 413 milioni di euro destinati al tax credit nell’ambito del fondo generale che ammonta a 696 ml.
I contributi selettivi, vale a dire la componente autoriale e meno legata alla mera commercializzazione, ammontano a circa 84 ml, di cui ben 52 sono destinati ad opere inerenti a personaggi o avvenimenti dell’identità culturale italiana. Ecco, dunque, il parallelo sottotesto del provvedimento: molto mercato, molta voglia di cimentarsi con un sovranismo pieno di ammiccamenti ad un passato spesso in camicia nera.
Si comprendono le ragioni delle proteste di associazioni e artiste o artisti fuori dal giro del governo. Anzi. Dalle associazioni storiche -da Anac a 100autori- era lecito attendersi una determinazione maggiore.
Tra l’altro, coloro che riescono ad entrare nell’area dei contributi selettivi non devono soggiacere a vari vincoli previsti. Ma qui si registra un corto circuito non commendevole: l’attribuzione di quei contributi rappresenta comunque un atto di qualche arbitrarietà e l’eventuale peccato originale si trascina per l’intero percorso dei finanziamenti.
Insomma, per chi non ha santi in paradiso deve essere davvero un santo.
Vedremo se sarà possibile ottenere una modifica e se le opposizioni pretenderanno di ridiscutere tutto. Il parlamento è sovrano.
Lo spirito del tax credit è chiaro ed è stato accompagnato da una ossessiva campagna sui troppi film prodotti in Italia per il vecchio tax credit: curiosa polemica, perché i cardini rimangono omologhi. Alla campagna, anzi, si è aggiunto il livore contro un cinema considerato troppo di sinistra. Ma il ministro Sangiuliano e la sottosegretaria Borgonzoni che cosa guardano in sala?