D’estate tornava sempre a Pesaro, per trascorrere un periodo completamente dedicato alla madre che amava teneramente, e anche agli amici di infanzia. con i quali non aveva mai perso i contatti, avendo insieme respirato l’aria che non si dimentica. Andavano a giocare a tennis nelle ore più calde, le due, le tre, sui campi in terra rossa di viale Trieste, che da tanto tempo non esistono più, all’altezza dell’Hotel Brig, anch’esso scomparso. Quell’ora canicolare era scelta per sottrarsi alla curiosità, ma anche per dimagrire sudando copiosamente. Da attore di grazia combatteva l’adipe, cercava di mantenersi il più possibile in forma. Dopo averlo conosciuto, qualche volta andavo ad assistere alle partitelle, e se mancava un quarto per il doppio, magari venivo reclutato per quanto ancora ragazzo.
L’ho incontrato e frequentato in spiaggia nella zona sud del lungomare della città, all’altezza di via Amendola, a quel tempo il tratto meno nobile della riviera. Erano per me gli anni del ginnasio. Lui era sempre solo, seduto su una sedia sdraia, circondato da libri, giornali, copioni. Avevo saputo che era un attore, ma a quel tempo, 1960, 1961, non si avevano notizie a valanga come ora, le informazioni giungevano vaghe e incerte. Personalmente non possedevo neppure una nozione precisa di cosa fosse un attore, perdipiù di teatro di prosa, quindi di rango elevato, diciamo meno popolare, sebbene presto avrebbe recitato in trasposizione di opere immortali ridotte e trasmesse dalla RAI TV. Lo avevo avvicinato per una spontanea curiosità di conoscerlo, di parlargli. E lui era stato subito disponibilissimo, nonostante la sua nomea di persona riservata e schiva. Forse perché mi aveva visto spesso con un libro in mano; il pomeriggio andavo volentieri a leggere in spiaggia sotto l’ombrellone, nel silenzio sciabordante della siesta, Dostoevskij, Gogol, Victor Hugo, quei tomi pesanti che si potevano affrontare con leggerezza soltanto a quell’età, quando tutto è nuovo, e con tanto tempo a disposizione durante le interminabili vacanze estive. Senza immaginare che quelle pagine ti avrebbero cambiato per sempre la vita.
Così con Glauco abbiamo cominciato a parlare, io mi sedevo al suo fianco, vorrei dire ai suoi piedi, direttamente sulla sabbia, lui restava affossato nella sdraia, sorridente, affabile. Mi raccontava dei suoi autori preferiti, che portava in scena, Samuel Beckett, Ionesco, nomi che io non avevo mai sentito pronunciare poiché a scuola ci si atteneva scrupolosamente al programma ministeriale. Erano pièce che Mauri aveva in repertorio e che lo avevano reso famoso perché sapeva trasformare quei testi all’apparenza ostici, in favole lepide e divertenti, di un divertimento diverso, da scoprire. Conversando me ne spiegava l’originalità, la grandezza, l’influenza che avevano sulla cultura della stagione non esaltante che stavamo attraversando. Nessuno mi aveva mai parlato così familiarmente, a tu per tu, di argomenti che mi affascinavano senza un motivo preciso, come se davanti a me si stesse aprendo una porta invisibile, camuffata nell’arredamento, e una volta attraversata la soglia mi attendesse un luogo incantato pronto ad accogliermi.
Glauco Mauri mi spalancò orizzonti e scenari che senza di lui chissà per quanto tempo avrei continuato a ignorare; mi regalava una savana in cui rincorrere a piacere emozioni impalpabili. Mi illustrava il Teatro dell’assurdo, l’Esistenzialismo Francese, Il muro di Jean-Paul Sartre e specialmente la poetica di Albert Camus, che adorava. Un pomeriggio mi portò, in prestito, Lo straniero, curioso di sapere che effetto mi avrebbe fatto, se mi sarebbe piaciuto. Sì, moltissimo, e allora non lo volle indietro, era un suo regalo. Un volumetto giallino della Bompiani che ancora figura in libreria luminoso come un diamante: potrei raggiungerlo chiudendo gli occhi.
Ecco, come sempre non sto parlando di Glauco ma incorreggibilmente di me. Non saprei cosa aggiungere di lui oltre tutto ciò che si conosce e che in questi giorni verrà ripetuto a sazietà. Ma una cosa mi colpì in modo particolare, quando parlando di sua madre che aveva appena la terza elementare e faceva l’infermiera, disse: “È la donna più intelligente che mai abbia conosciuto, capisce tutto, e mi capisce più di quanto io capisca me stesso; qualsiasi cosa io faccia o dica, lei è con me. Non sarei mai arrivato a questo punto senza di lei.” Ancora non sapevo che si potesse parlare con tanta franchezza della propria madre, con tanta disinvoltura, come se fosse una fidanzata. Di fatto lo era perché, verosimilmente, era stata l’unica donna della sua vita.
Quando ci incontrammo di nuovo a Roma, molti anni dopo, l’incantesimo era infranto, lavoravo già nel cinema, frequentavo Fellini, il suo set, il suo milieu, mi ero affrancato dall’ignoranza provinciale in cui mi dibattevo quando lui mi aveva conosciuto. Andavo ai suoi spettacoli, lo applaudivo, correvo alla fine in camerino ad esternargli il mio entusiasmo, tra baci e abbracci come si usa nel mondo dello spettacolo, dove tutto è un po’ artefatto, un po’ teatrale, appunto. Ma lui sapeva che io ero quello di sempre. E lui… beh lui era diventato Glauco Mauri, un mostro di talento, un interprete inarrivabile del teatro più colto, più squisito, sofisticato, mai di maniera. Era un sacerdote della scena, come ha dimostrato preparandosi a recitare di nuovo in tournée nel De Profundis di Oscar Wilde. Proprio alla soglia dei 94 anni, sfilandosi dalla vita due giorni prima di compierli, come un teatrante che crea la propria leggenda. Quale resterà saldamente in futuro e nella nostra memoria. Per salutarlo e augurargli buon viaggio, ripeterò di lui una citazione di Bernanos che mi consegnò al compimento dei suoi ottanta anni: “Per chi crede nessuna spiegazione è necessaria. Per chi non crede nessuna spiegazione è possibile.” A Dio Glauco, adesso il mistero ti sarà stato svelato.