Alberto Giacomelli, il giudice vittima della mafia e dell’oblio

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Il delitto è di quelli che fanno parte di una strategia. Strategia di morte, strategia di vendetta, firmata dalla mafia. È il primo di due omicidi che nel giro di 12 giorni, nel settembre del 1988, scuoteranno Trapani, ma senza causare (si potrà capire da ciò che è accaduto negli anni che seguirono, fino ai nostri giorni) tanti sconvolgimenti, al solito l’emozione ha sempre presto ha lasciato spazio alla quotidianità e alla disattenzione rispetto all’evolversi della cosa mafiosa che in quegli anni proprio cambiava pelle e diventava impresa, entrando anche nelle stanze della politica, delle istituzioni  e degli uffici pubblici. Lo dimostreranno molti anni dopo quel 1988 gli arresti di «colletti bianchi», professionisti, imprenditori, politici ed amministratori, dirigenti di uffici tecnici.
Il giudice (in pensione) Alberto Giacomelli venne ucciso a Locogrande, nella via Falconara, esattamente 36 anni fa, il 14 settembre del 1988. I mafiosi cercavano un giudice da ammazzare, così raccontò qualche pentito, un giudice da ammazzare, come se ci fosse stato un segnale da mandare a qualcuno, ma forse questo non è del tutto vero. Quel giudice da uccidere fu proprio Giacomelli. Quello che è vero è  che quella carogna ammazzacristiani del mafioso Totò Riina, che diede l’ordine, si ricordò di Giacomelli e di una confisca firmata dal giudice nel gennaio del 1985 (quando Giacomelli presiedeva la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani). Una confisca a danno di Gaetano Riina, fratello di Totò, al quale venne tolta una casa di Mazara del Vallo, dove i Riina accolti come sovrani di quel reame della morte, si erano da tempo trasferiti, accolti da Mariano Agate, boss di Mazara e Ciccio Messina Denaro, boss di Castelverrano e capo della commissione provinciale.

Eppure anche per il delitto Giacomelli il processo non fu cosa facile.

Depistaggio e falso pentito, una sorta di Scarantino ante litteram, e ad essere incolpati furono i componenti di una banda di balordi, quando c’era il decreto con la confisca sotto gli occhi di tutti, e in quel 1988 era diventato definitivo. Giacomelli, svelò il pentito di Mazara  Vincenzo Sinacori, fu ammazzato soprattutto per «una questione di famiglia», non «famiglia» nel senso di Cosa Nostra, ma «famiglia di sangue», per avere toccato interessi propri dei Riina. Quella confisca era derivata da una delle prime sentenze di applicazione, e forse non solo guardando nel trapanese, della legge «Rognoni La Torre».
Il 9 settembre del 1987 contro quella confisca i Riina tentarono l’appello, Gaetano Riina cercò anche di mantenere il possesso di quella villa facendosi nominare «affidatario» ma ogni tentativo fallì, l’anno dopo l’ultima sentenza di rigetto, Giacomelli fu ucciso.

La rivalsa fu compiuta e suonò anche come un «segnale» rivolto a chi andava parlando – allora timidamente – del destino dei beni confiscati alla mafia.

E in effetti dovranno passare anni prima che di questo si sia tornato a parlare e ad agire in maniera diversa e concreta.

Tanto che un prefetto, a Trapani non a caso, Fulvio Sodano, nel 2003, per essersene interessato, per avere messo in moto la macchina delle assegnazioni dei beni confiscati, diventò tanto tinto agli occhi dei mafiosi che liberamente andavano dicendo in giro che in città non lo volevano più.

Alberto Giacomelli quel 14 settembre del 1988 risultò per i sicari mafiosi un obiettivo agevole da colpire, era in pensione, di solito si muoveva da solo, e stava molto in campagna.

Tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto fu il procuratore di Marsala Paolo Borsellino, c’era una guerra di mafia in corso. Ma qualcuno portò le indagini altrove, su quel giudice si cominciò a raccontare tanto e malamente, Cosa nostra sa ammazzare e sa mascariare, e la verità invece era a portata di mano.

La «strategia» mafiosa contro Giacomelli non si consumò solo col delitto,  partì pure la delegittimazione, che nei fatti di mafia secondo un preciso rituale è una costante, colpa di una società dove è facile fare attecchire le fandonie e che è attenta a ciò che è pruriginoso, e così si cominciarono a raccontare episodi, scoperte infondate, come la gestione di terreni e di soldi da parte del giudice, quasi che alla fine il colpevole della sua morte fosse stato lui stesso, e poi quando proprio non se ne potè fare a meno venne fatto saltare fuori un (falso) pentito che portò gli inquirenti a prendersela con una banda di balordi. Tante fandonie che misero anche in crisi e fecero entrare in contrasto i diversi corpi investigativi che lavoravano sul «caso».

Cosa che ovviamente alla mafia fece bene perché aveva affari da portare avanti. Il lavoro di indagine dei Carabinieri portò infine anni dopo il delitto  alla svolta, si scoprirono le ragioni, venne tirata fuori dagli archivi la  sentenza di confisca firmata da Giacomelli e dove c’era scritto a chiare lettere il nome del confiscato  Gaetano Riina.

Totò Riina è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per essere stato il mandante, Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto.

Chi ha sparato è rimasto indenne, c’è una indicazione del pentito di Paceco Francesco Milazzo: lui ha fatto i nomi di chi avrebbe ucciso il giudice Alberto Giacomelli sono scritti tra gli atti giudiziari,  Ciccio Milazzo è l’unico che ne parla, che parla di un «summit» per organizzare il delitto.

I nomi sono quelli di Pietro Armando Bonanno e Francesco Bica, il primo tornato in carcere da poco, graziato all’ergastolo, dopo essere riuscito a stare decenni latitante, anche in Sudamerica, era tornato libero e a Trapani si era rimesso a fare il capo, adesso è in attesa di processo. Contro Bonanno e Bica le sole parole di un solo pentito non bastarono, e così uscirono dall’indagine.

Ma è la memoria collettiva che ha perduto tanto di più, di quel giudice ammazzato pochissimi lo ricordano, per lui niente cerimonie altisonanti.

Se ne parla pochissimo nelle scuole, perché sottovoce di lui si continua a parlarne male, e quindi la verità viene fermata dalla zizzania.

Stamattina a Trapani c’è stata una cerimonia nella piazzetta a lui dedicata vicino al Tribunale: quando venne collocata la targa a sua memoria si dimenticarono di scrivere che era stato un giudice vittima della mafia.

Nel pomeriggio l’aula consiliare del neonato Comune di Misiliscemi verrà intestata al giudice.

Poi la sua morte tornerà a ricomporsi nell’oblio.

Insanguinato fu quel settembre del 1988.  Fu facile per altri killer mafiosi, uccidere 12 giorni dopo a Caltanissetta il giudice Antonino Saetta e il figlio Stefano che viaggiavano in auto. Ammazzato per fermare la celebrazione e di un processo, e che processo, il secondo grado del maxi processo, quello istruito da Falcone e Borsellino. Saetta doveva essere il presidente di quella Corte di Assise di appello. La sera successiva i killer mafiosi tornarono a sparare a Trapani, ammazzando il giornalista Mauro Rostagno.

Quel settembre 1988 andrebbe raccontato in altro modo, Cosa nostra aveva appena aperto la porta dell’inferno verso le stragi  del 1992 e 1993.


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