Sessant’anni fa moriva a Jalta Palmiro Togliatti, colui che assunse la guida del PCI negli anni bui dell’esilio e della clandestinità e, nel dopoguerra, seppe trasformarlo in un partito unico nel suo genere, diverso da tutte le altre formazioni comuniste d’Europa. Del resto, il miracolo togliattiano, se così vogliamo definirlo, affonda le radici nel coraggio che egli mostrò nel marzo del ’44 con la svolta di Salerno, anteponendo l’esigenza di chiudere i conti col fascismo prima di affrontare il dilemma fra monarchia e repubblica. Il che dimostra il tratto peculiare di una leadership antica e moderna al tempo stesso, capace di coniugare idealismo e pragmatismo e di fornire ai militanti una linea chiara e, talvolta, tutt’altro che incline ad assecondare gli umori popolari.
Certo, va inquadrato nel suo contesto storico di uomo nato nel 1893 e testimone dei diluvi del Novecento. Certo, non si possono ignorare i suoi rapporti con Mosca, talmente stretti da diventare a tratti soffocanti, come ad esempio nel ’56, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, quando il comunismo italiano sprecò l’occasione unica di recidere il cordone ombelicale che lo legava all’Unione Sovietica e di dar vita a una mutazione storica che, probabilmente, gli avrebbe consentito di partecipare, sin da allora, alla guida del Paese. Fu l’eccesso di realismo a tradire, forse, “il Migliore”? Fu la convinzione che, di fronte agli appoggi interni e internazionali di cui godeva la Democrazia Cristiana, perdere i finanziamenti e il sostegno dell’URSS sarebbe stato esiziale per il PCI? O fu, come credo, e non sono certo il solo, una mancanza di coraggio o, per meglio dire, un’incapacità di anticipare i tempi e compiere una mossa che vent’anni dopo, in uno scenario radicalmente mutato, va detto, Berlinguer ebbe invece il coraggio di compiere?
Togliatti è stato il ministro di Grazia e Giustizia che, nel ’46, firmò l’amnistia a vantaggio dei fascisti, per porre fine alle ritorsioni e alle vendette in atto soprattutto nelle zone in cui il suo partito era egemone, scongiurando così il rischio di una guerra civile. Fu, tuttavia, anche colui che non seppe tollerare il dissenso interno, emblematiche le espulsioni di personalità nobili come Cucchi e Magnani, definiti addirittura “pidocchi” che infestavano la criniera del cavallo, e di non porsi più di tanto il problema di fior di intellettuali, da Pasolini a Ghirelli a Calvino, che vivevano con il partito un rapporto di amore e odio.
Troppo realista, talora cinico e in alcuni casi addirittura spietato, ebbe comunque il merito, enorme, di costruire una struttura che teneva insieme gli operai e le figure più illustri del panorama culturale italiano, sostenendo attivamente una rete di giornali, riviste e pubblicazioni senza eguali e puntando su una visione pedagogica della vita di sezione. D’altronde, non poteva non essere influenzato dal concetto gramsciano di egemonia, che infatti fu la sua bussola e la ragione stessa del suo confronto con il gotha della letteratura, dell’arte e del cinema di un Paese che aveva da poco ritrovato la democrazia e, con essa, la voglia di vivere e di esprimersi liberamente.
Nobile anche il gesto di adottare una bambina, Marisa Malagoli, in seguito alla mattanza compiuta dalla Polizia di Scelba durante una protesta degli operai delle fonderie modenesi, di cui sei rimasero uccisi (tra questi, per l’appunto, Arturo Malagolo), come spesso capitava in quel periodo e come non mancava di far notare, in ogni circostanza, l’allora segretario della CGIL, Giuseppe Di Vittorio.
Togliatti seppe difendere e dare un’anima ai valori del comunismo, strutturando quella via italiana che si è sempre distinta per rigore, competenza e convivenza fra l’alto e il basso, fra gli apocalittici e gli integrati, in una fase storica nella quale ancora non solo ci si credeva ma si riteneva un dovere morale partecipare alla vita pubblica.
È stato senz’altro uno dei protagonisti di una stagione irripetibile, andandosene in un’Italia divenuta ormai “volgare e gaudente” dopo gli anni del boom e dell’esplosione di un benessere che aveva reso possibile ciò che fino a poco tempo prima sembrava impossibile.
I suoi funerali, svoltisi a Roma il 24 agosto del ’64, videro la partecipazione di un milione di persone. Solo l’addio a Berlinguer, vent’anni dopo, avrebbe mobilitato una folla ancora più oceanica. Di quell’evento ci rimangono molte testimonianze, a cominciare dal celebre dipinto di Guttuso e dalle scene di “Uccellacci e uccellini” di Pasolini.
Non entriamo nel merito delle sue vicende sentimentali e coniugali perché non ci pare questa la sede. Preferiamo, piuttosto, ricordare la compostezza e il senso dello Stato con cui contribuì a sedare la rivolta che avrebbe potuto condurre l’Italia nell’abisso dopo che il 14 luglio del ’48 aveva subito un attentato ad opera di un militante di destra, Antonio Pallante, che per fortuna riuscì solo a ferirlo e non a portare a termine il progetto di assassinarlo.
Non si mostrò mai fragile, anche se forse lo era. Rimase al proprio posto fino alla fine, dovendo fare i conti con l’impossibilità di affrancarsi da logiche che, a pensarci bene, prescindevano dalla sua volontà. Qualche volta ha fatto la storia, qualche volta l’ha subita. A settantuno anni ci ha detto addio e oggi riposa a Roma, presso il cimitero del Verano. Perse, ma non fu mai uno sconfitto. Seppe dare, infatti, un’anima democratica a un partito attraversato da tentazioni rivoluzionarie. Fece i conti con se stesso, sacrificando ogni ambizione personale in nome della comunità e della tenuta di una democrazia della quale conosceva l’intrinseca debolezza. Sessant’anni dopo, ricordiamo dunque lo statista e la persona, anche se i due aspetti, nel caso specifico, coincidono alla perfezione.
Ha fatto in tempo a deludere ma anche a far sognare ed emozionare un popolo. Per questo, gli rendiamo il doveroso omaggio. Pochi esponenti politici hanno saputo comprendere le peculiarità delle classi popolari e subalterne come lui, affiancando all’ortodossia la capacità di ampliare gli orizzonti e dar voce ai troppi che, allora come adesso, non ne hanno.
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