Il caso dell’arresto sul suolo della (antica) capitale delle libertà non può essere affrontato in modo binario: buoni e cattivi, bianco e nero.
La vicenda di Pavel Durov e di Telegram, come hanno scritto su il manifesto di ieri (martedi 27 agosto) Luigi De Biase e Juan Carlos De Martin, va approfondita seriamente, trattandosi di un peculiare servizio di messaggistica protetto di notevole successo. Proprio il carattere di segretezza dell’infrastruttura nata in terra russa e non in California ha contribuito a lanciare nel Cloud una macchina tanto diffusa quanto eccentrica rispetto all’ordine occidentale.
In attesa di capire quanto siano fondate le accuse che hanno portato al fermo del tycoon, vale a dire quelle inerenti all’(eventuale) complicità di Durov con i protagonisti dei reati particolarmente odiosi segnalati, è bene non prendere sottogamba la sequenza coercitiva.
Si tratta di una «prima volta», perché finora il quadro repressivo si era limitato a richiami o multe, anche salate. Tuttavia, l’impianto normativo dell’inizio del 2000 in sede europea -fondato su una visione liberista più che libertaria della rete, senza alcuna responsabilità dei gestori delle piattaforme- ha condizionato le normative.
Solo recentemente è entrato in vigore il Digital Services Act, operativo dal 17 febbraio del 2024, che rovescia l’ordine degli addendi e considera rilevante il ruolo delle governance in merito ai contenuti illegali, alla trasparenza, ai linguaggi d’odio, alle fake.
La storia di Telegram potrebbe essere il colpo di inizio di una nuova stagione: dalla intangibilità della rete alla messa al centro del conflitto proprio di simile vastissima opportunità.
La ricreazione è finita? Sembra presto per affermarlo, ma nella scia si potrebbero intravedere i corpi di Musk o di Zuckerberg o di Page, accerchiati dai gendarmi.
Non è fantapolitica, visti i risvolti -ad esempio- della questione di Telegram sul piano delle relazioni tra Russia e Stari Uniti o la spy story che tocca la collaboratrice del magnate, Yuli Vavilova. Vero o no che sia, sarebbe la conferma della portata strategica del nuovo capitalismo dell’intelligenza artificiale.
Tra la prima stagione di Internet e l’età degli oligarchi dotati di poteri assai superiori alle routine degli stati nazionali, si profila finalmente il territorio delle regole.
Guai a ripercorrere -mutatis mutandis- la stagione dell’avvento delle emittenti televisive private: la colpevolissima sottovalutazione del fenomeno portò alla concentrazione berlusconiana. E certamente l’universo commerciale ha avuto una funzione enorme nel plasmare l’immaginario collettivo.
Adesso, con geometrica potenza, si ripresenta in modo diverso ma neppure troppo, al netto delle dimensioni, la necessità di introdurre nell’infosfera una disciplina volta a sancire il concetto di «limite». La migliore tradizione scientifica -da Norbert Wiener, ad Alan Turing, a Marcello Cini, a Stefano Rodotà, per evocare qualche illuminato protagonista della discussione sul carattere non neutrale della tecnica- ha posto simile argomento come premessa di qualsiasi discorso: una sorta di «linea generale», indispensabile per orientarsi in un labirinto teorico, semantico e pratico inafferrabile senza un approccio ben determinato nelle premesse e nelle finalità.
Se ci si crogiola in un dibattito paragiuridico sul valore oppressivo o meno dell’arresto di Durov, non si trova risposta e un efficace studio legale potrebbe sostenere una tesi o il suo contrario.
Quindi, uno sguardo non banale o effimero alla crisi democratica di cui l’avvitamento della rete è componente cruciale si rende urgente.
In fondo, Telegram è il ribaltamento di Wikileaks: culto del segreto contro lotta durissima per la verità.
Ecco perché è sbagliato leggere gli ultimi avvenimenti solo sotto la luce della censura. C’è anche questo, ovviamente. Ma incombe una valutazione compiuta sugli ingredienti evoluti della miscela che intreccia tecnocrazie e populismi.
Una cultura moderna e riformista passa dalla critica dell’inedita forma di economia politica piena di effetti collaterali.
(Da Il Manifesto)