Ritorno in Rojava dopo il passaggio dell’Isis – Reportage esclusivo di Articolo 21

0 0

Il cartello dice “vietato fare il bagno” e non è che non lo vedano. E’ che sono bambini. Fa davvero caldo, a Raqqa, a fine luglio. Le rive dell’Eufrate sono tornate ad essere un luogo dove andare a cercare un po’ di refrigerio. Tuffandosi in acqua come fanno i più piccoli, o riparandosi all’ombra degli alberi o sotto uno dei due nuovi ponti che giusto a giugno di quest’anno sono stati terminati. Due bambine si sfidano a chi arriva prima, ma è chiaro che una delle due sta imbrogliando. L’altra non sembra prenderla bene, ma essendo più piccola accetta sua malgrado. Isis aveva fatto crollare il ponte così in questa zona dell’argine fino a poco tempo fa si incontravano solo camion cisterna che si rifornivano d’acqua e persone che con mezzi di fortuna garantivano il passaggio da una riva all’altra del fiume. Questo era giusto due anni fa, oggi è tutto diverso. Ora, anche grazie a contributi tedeschi e giapponesi, di ponti ce ne sono due. E sono tornati i ragazzini che si godono le vacanze estive. Quelli meno fortunati sono costretti a lavorare, ma qualche tuffo se lo concedono anche loro. Vendono bevande fresche o offrono la tipica arghilè che si usa per fumare in gran parte del mondo arabo. Del passaggio di Isis, che prima era presente dappertutto, rimane solo il colore che hanno sparso sopra le figure femminili riprodotte in antichissimi mosaici nel museo della città, danneggiandoli seriamente non potendo portarli via. Del patrimonio millenario di culture come quelle Assiro Babilonesi c’è ormai rimasto davvero poco. «Mi chiedete se mi piacerebbe vedere i turisti riempire le nostre sale. Che senso ha se prima non torna indietro tutto ciò che ci hanno depredato? Isis saccheggiava per poi rivendere nel mercato privato illegale e tanti dei pezzi che erano presenti in questo posto oggi fanno parte di collezioni private», dice l’anziano direttore del museo di Raqqa, Mohamud Abdullah, mentre ci accompagna a visitarlo.

L’occupazione di Isis a Raqqa ha prodotto oltre che violenze e razzie, anche tanti nuovi poveri. Gente che è rimasta senza nulla e che cerca di guadagnarsi da vivere come può. Per questo non è inusuale incontrare minori che riempiono sacchi di vetro o di plastica raccolti lungo le strade per poi andarli a rivendere.

Pur essendo estate ragazzini e ragazzine si incontrano anche in quelle che in Rojava, la regione a maggioranza curda nel nord est della Siria, si chiamano accademie. Sono i luoghi dove, anche d’inverno dopo aver fatto scuola, questi e questi giovani imparano a suonare strumenti musicali, a recitare, ballare,  dipingere e praticano pure sport. Accoglienti, con sale attrezzate per le diverse discipline, un teatro dove esibirsi ed esposti in ogni angolo quadri, dipinti, installazioni creati dagli stessi ragazzi. Ce ne sono in ogni città. Molti finanziamenti per metterle in piedi, in almeno cinque casi, e farle funzionare, sono arrivati da associazioni italiane. Se le accademie sono luoghi che non fanno pensare affatto a un’area del mondo dove ancora si combatte, le scuole non sono da meno. Ma la cosa che colpisce pensando anche ad altri scenari e teatri di conflitto è come sono pensati e organizzati gli orfanotrofi. «Questi bambini hanno perso i genitori per motivi legati alla guerra. Resistendo, tentando di mettere in salvo i propri figli, combattendo o anche solo cercando di non farsi prendere dai miliziani di Isis, è nostro dovere occuparci di loro. Rappresentano il nostro futuro e devono avere le stesse opportunità di chi ha una famiglia. Soprattutto per chi cresce in un contesto come questo», ci spiega un’insegnante. Gli edifici sono molto grandi, strutturati su più piani. Nel primo ci sono sempre le aule scolastiche, sia per i più piccoli che per i più grandi. Nei piani superiori ci sono i vari laboratori dove si svolgono attività artistiche ma anche ludiche. Ai piani superiori si trovano le camere. Singole, da due o da tre posti lotto. «Si è così liberi di scegliere di voler avere uno spazio proprio o di condividerlo», dice aprendo la porta di diverse stanze un’altra insegnante. All’esterno alberi e immancabili i campi da calcio e da pallavolo. Nella stessa Siria, messa a dura prova da dieci anni di guerra, questo oggi sembrerebbe impossibile. In Rojava invece sono state aperte in questi anni ben quattro università. Quella di Qamishlo, di Afrin, di Raqqa e quella di Kobane che ha una sede nuovissima e davvero moderna.

I “neuborough”, i vicini come vengono chiamati con un misto di rispetto e distacco, non vedono certo di buon occhio l’esperienza del Rojava, tutt’altro. Anzi la percepiscono come un grande pericolo e gli effetti si sono visti ad esempio in Iran, dove le donne curde hanno cominciato la protesta contro l’obbligo di indossare l’hijab e altre dure restrizioni imposte. Le donne iraniane protestano utilizzando proprio lo slogan “donne, vita e libertà” coniato dal leader del Pkk, Abdullah Ocalan, detenuto in isolamento da 25 anni in Turchia. Si legge ovunque in Rojava. Eppure, seppure circondati, sotto embargo, isolati e costantemente attaccati, questa piccola grande regione situata nel nord est della Siria, dopo aver respinto nel 2014 la furia di Isis, di fatto ha una sua autonomia. Da Kobane a Raqqa, da Afrin a Derik, quest’area confina con l’Iraq del Nord, il Kurdistan iracheno, a est. A nord con la Turchia. Il resto è Siria, della quale fa ancora parte.

In questi anni di guerra civile nel paese vicino il premier turco Erdogan ne ha approfittato per limitare prima di tutto in casa sua ancora di più i curdi che vivono nel Bashur, la regione del sud che confina proprio con la Siria dove, fa di tutto per ostacolarli. Una volta fuori causa Isis il premier turco ha cominciato a fare da solo attaccando soprattutto Afrin che è sotto assedio da anni, ma non solo. Nel resto del territorio usa prevalentemente i droni. Sono così silenziosi che mentre da vicino si osserva come è ridotta un’auto colpita da un razzo sparato proprio da un drone non ci si rende neppure conto di averne uno sulla testa. Se non fosse per la preoccupazione di chi invece se ne accorge, è in fondo come non fosse mai avvenuto. Sull’auto che si stava ispezionando viaggiava un giornalista morto insieme a chi lo accompagnava. E’ stato ucciso da un razzo sparato da un drone. Non si sentono, non si vedono, ma possono essere letali, quando non sono impegnati a scattare foto ricordo.

Il Municipio di Kobane guarda proprio al confine turco, che si distingue in modo evidente dal muro che Erdogan ha fatto costruire nel 2015 con il pretesto di arginare le ondate di profughi provenienti dalla Siria. E’ da lì che i soldati turchi sparano verso il municipio che è crivellato di colpi di grosso calibro. I buchi sono tanti e ce ne sono anche di molto recenti. Anche sulle finestre. «La Tuchia attacca le infrastrutture, impedisce l’arrivo dell’acqua del Tigri chiudendo le dighe e mettendo in difficoltà città come Hassakah, compie omicidi mirati con i droni, attacca nel cantone di Afrin da ormai sette anni uccidendo civili e non c’è nessuno che dice nulla. Come mai? Una volta c’era la fila di giornalisti che voleva raccontare la nostra storia. Non interessa più sapere come prosegue e cosa ci succede? Dov’è la comunità internazionale», ci dice Rewşen Ebdî, co sindaca di Kobane, con un misto di polemica, sarcasmo e la giusta rabbia.

Kobane, quando si parla di Rojava è il nome più conosciuto perché è la città simbolo della resistenza al Califfato. La vittoria sull’Isis, con le donne combattenti protagoniste a fronte di un esercito irregolare di fanatici oscurantisti nel 2015, ha dato una spinta all’impulso che il partito dei lavoratori, il Pkk, nel 2012 aveva lanciato a tutta la popolazione. Il proposito era quello di mettere in atto il confederalismo democratico. Un’idea di società in cui i temi ambientali assumono un ruolo centrale attorno al quale far ruotare tutte le altre scelte. Quindi il passaggio in qualche modo rivoluzionario, visto anche dove ci troviamo, in un pezzo di mondo circondati da paesi in cui a comandare sono da sempre uomini, per lo più dittatori o teocrati, è che per fare questo balzo bisognava mettere le donne al centro, proprio come fa la natura. Per portare energia e armonia, per responsabilizzare gli uomini e rendere finalmente protagoniste le donne. Anche il credo religioso, la provenienza, l’appartenenza etnica non sono più una barriera. E la guerra all’Isis, una volta vinta, ha messo nelle mani dei curdi del Rojava una grande opportunità, quella di costruirla questa società nuova, paritaria con una democrazia partecipata. Da noi è un modo di dire, lì una pratica, più snella e veloce di quanto si pensi. Ogni municipalità è guidata da un uomo e da una donna e anche nei consigli siedono sia uomini che donne. Non necessariamente queste persone devono essere curde, anzi. Sono tantissimi, arabe e arabi coinvolti, come d’altronde anche tanti cristiani. L’attuazione del confederalismo democratico, che è evidentemente molto più complesso di come lo abbiamo sintetizzato, dal punto di vista ecologico trova delle difficoltà oggettive causate soprattutto dall’embargo, ma su altri aspetti quello che si sta facendo in Rojava invece è sorprendente, soprattutto se si parla d’istruzione e di diritto dei minori di poterne beneficiare. Un altro esempio da questo punto di vista lo abbiamo avuto a Derik.

«Siccome siamo in un campo profughi, dove vive gente che ha dovuto lasciare casa propria per colpa dei bombardamenti continui e delle incursioni dell’esercito turco, le scuole dovrebbero essere brutte e poco accoglienti. Non è un bel modo di ragionare. Perché, da voi come sono le scuole? Non sono così?». Noora è una donna di circa quarant’anni. Grande personalità, energica e diretta. Anche nel comunicare. E’ lei che organizza il campo profughi di Derik, che lo coordina. Ci vivono migliaia di persone. Famiglie con bambini ai quali viene garantita, come a tutti in Rojava, non solo l’istruzione ma anche le attività messe a disposizione dall’accademia presente in città. Non è il campo profughi che si è soliti aspettarsi, sporco e disastrato. Al contrario è molto ordinato e organizzato. Di fronte a ogni tenda Noora ha fatto piantare un albero. «Oggi questo serve per dare un po’ di refrigerio e anche un po’ più privacy. Non è vivere stare in una tenda, figuriamoci sotto questo sole e questo caldo», ci dice con tono chiaro. Non perde la sua determinazione neppure quando ci dice, cosa vede nel futuro: «Un giorno queste persone potranno tornare nelle loro case o andare dove vorranno, a vivere». Poi sorridendoci: «E qui ci sarà una foresta», dice tornando a rivolgere lo sguardo verso il campo. Dieci anni fa in questo periodo si parlava delle donne curde come eroine ma con poche speranze. Oggi dettano le condizioni per il futuro.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21