Perché è doveroso “sporcarsi le mani” sui social

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L’ingresso tumultuoso nel discorso pubblico di una moltitudine ingenua, scomposta nello stile e nel modo di argomentare ha suscitato grande scoramento soprattutto tra i cultori degli studi su Internet; una reazione comprensibile – ma non giustificabile – visto che siamo di fronte a un fenomeno inaudito nella storia del genere umano: l’irruzione nella sfera pubblica, nella dimensione del discorso pubblico borghese, di miliardi di cittadini che fino a ieri, e da quando esiste la specie umana, erano stati soggetti passivi di una comunicazione sociale a senso unico: “da uno a molti”, dall’alto verso basso, dal centro alla periferia.

Leggendo i titoli dei best-sellers più venduti negli ultimi quindici anni, dedicati a Internet, lo scenario che si presenta è apocalittico. La rete è il nemicoil sesto potereun abisso che ci rende stupidi e ingenui, uno sciame digitale che provoca ossessioni collettive e demenza…e via commiserandosi. Jerome Lanier, uno dei fondatori delle rete, invita a “disconnettersi e cancellare le tracce”.

Anche tra i partiti che si ispirano agli ideali di uguaglianza e giustizia sociale aleggia un’aria di rassegnazione come se l’irrimediabile fosse già accaduto e un’imprevista eterogenesi dei fini abbia tramutato l’intelligenza collettiva, anarchica e creativa, auspicata da Pierre Levy negli anni novanta, “in un sistema di sorveglianza universale che si nutre della libidine voyeuristica ed esibizionista di miliardi di schegge luminescenti e indignate” (Geert Lovink). Questa lunga ondata di scoramento non risparmiò neppure Umberto Eco, che pure fu tra i primi a cogliere con entusiasmo le potenzialità dei media digitali: “Con Facebook e Twitter è la totalità del pubblico che diffonde opinioni e idee. Nel vecchio giornalismo, per quanto disgustoso potesse essere un giornale, esisteva un controllo. Ora però tutti gli abitanti del pianeta, compresi i pazzi e gli idioti hanno diritto a parlare in pubblico”.

In realtà, dietro questo rassegnato scenario un po’ nostalgico, da colonnelli in pensione, vi sono centinaia di milioni di comuni cittadini, molti dei quali, per la prima volta, hanno avuto accesso al discorso pubblico – una dimensione sociale di cui ignoravano l’esistenza stessa. Sono, nella maggior parte dei casi cittadini non formati, per usare l’espressione di Norberto Bobbio, persone vittime di un’intollerabile diseguaglianza sociale che li ha privati di un’istruzione adeguata e della possibilità di maturare una razionale capacità di giudizio. Certo, non praticano la scrittura e la lettura “lineare”, la loro navigazione in rete è di superficie perché ignorano la profondità, sono esposti alla suggestione perché sprovvisti di coscienza critica, ma considerare questo rassemblement atomizzato espressione di “un fisiologico disfarsi di una civiltà nell’ignoranza, nell’oblio, nella stanchezza e nel narcotico dei consumi” (A. Baricco) non è solo un’iperbole: è una sciocchezza.

Assumere un atteggiamento offensivo e infastidito verso questo ingresso sguaiato nel dibattito pubblico di questaopinione di massa”, è prima di tutto un errore politico perché avallerebbe la tesi di un conflitto tra un’aristocrazia intellettuale e “il popolo della rete”: una manna per demagoghi e populisti.

In un passo dei Quaderni del carcere Antonio Gramsci si pone retoricamente la domanda: come si può ammettere che il voto di un grande intellettuale e politico (come per esempio Benedetto Croce) valga come quello di un membro delle classi subalterne (ad esempio un pastore analfabeta transumante nel centro della Sardegna)? E rispondeva così: “il pastore non ha nessuna colpa, la colpa è di quelli – politici e intellettuali – che non hanno saputo raggiungere il pastore per imparare qualcosa da lui e per insegnare qualcosa a lui. Il che non si può fare se si crede che la cultura sia tutta racchiusa nelle biblioteche”

I partiti storici della sinistra italiana hanno combattuto, sin dalla nascita, il classismo intellettuale: basti pensare al simbolo del Partito Socialista Italiano dove, in primo piano, sullo sfondo del sol dell’avvenire risaltava, insieme alla falce e al martello, anche un libro aperto, emblema del riscatto non solo materiale ma anche intellettuale e spirituale delle classi subalterne. Che dire poi dell’atteggiamento di riguardo che Palmiro Togliatti riservò agli elettori de L’Uomo qualunque, una formazione politica antesignana del populismo attuale, da cui il termine spregiativo qualunquista. A questo partito e ai suoi militanti era connaturata l’antipolitica e un anticomunismo viscerale che il loro leader, Guglielmo Giannini (attore teatrale e giornalista), alimentava offendendo pubblicamente Togliatti con appellativi all’epoca inconsueti: “stronzo, verme, farabutto, falsario”. Solitamente si ricorda questo episodio per attribuire al Migliore una particolare astuzia politica – come se mancassero altre prove! – senza rendersi conto che non tanto di un espediente tattico si trattava, ma piuttosto della consapevolezza che il partito di massa era innanzitutto una “palestra di pedagogia” per milioni di italiani semianalfabeti, spinti dai pregiudizi e da sommarie certezze ad abbracciare uno spirito di rivolta ingenuo, sostenuto dalla suggestione e incattivito da precarie condizioni sociali.

Il variegato e chiassoso assembramento di utenti della rete che entra a gamba tesa nel discorso pubblico inquinandolo con complotti immaginari, disinformazione, notizie false e post-verità il più delle volte diffuse in buona fede; queste persone che non sanno distinguere tra l’autorevolezza di una fonte accreditata e l’algoritmo generatore automatico di bufale; questi poveri cristi che si lasciano irretire nel “cazzeggio” delle chiacchiere a vanvera, e che si sottomettono a una servitù volontaria cedendo gratuitamente la propria identità e la riservatezza: ebbene, questi leoni da tastiera che, a seconda dei giorni, si riconoscono nei movimenti reazionari e forcaioli oppure nelle crociate moralizzatrici, che inscena processi di piazza e organizza la caccia agli untori è davvero cosi diversa dai milioni di cittadini che allora votavano l’Uomo qualunque?

Gli epigoni dei partiti di massa non sono riusciti finora a dare dignità politica all’accesso tumultuoso nel discorso pubblico di centinaia di milioni di cittadini. Si lasciano prendere dagli epifenomeni più clamorosi e politicamente scorretti trascurando le condizioni oggettive di cui sono espressione: l’analfabetismo culturale prodotto dal declino della scuola pubblica, la crescita impietosa delle diseguaglianze economiche e culturali, la solitudine di massa conseguente alla rottura della coesione sociale. S’indignano se qualcuno manovra le masse con la propaganda a buon mercato, piuttosto che chiedersi perché non siano stati in grado d’impedirlo e come porvi rimedio. È possibile che vent’anni dopo l’esplosione della rete i partiti democratici e socialisti  non abbiano ancora inventato uno straccio di forma-partito che svolga una funzione analoga a quella dalle sezioni e dalle cellule nel XX secolo?

Per dialogare con il “popolo della rete” è opportuno sporcarsi le mani.


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