Pensieri sul filo della vita quotidiana. Un saggio di Stefano Catucci (Quodlibet)

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Sul filo” del filosofo Stefano Catucci, il lettore non accademico e tuttavia ben disposto all’emozione di riconoscere qualcosa di se stesso in una parola divenuta un intero universo, resta in mutevole equilibrio fino all’ultima metafora. Basta lasciarsi avvolgere da sottigliezze via-via trasformate in logiche stringenti; poi disciogliersene, un filo dopo l’altro, di suggestione in suggestione, grazie a movimenti del pensiero dinamici fino al funambolismo o staticamente contorsionistici; però sempre altrettanto inesorabilmente coerenti. C’è una fisicità clinica nel metodo dell’autore che rimanda ai suoi ben conosciuti lavori su Michel Foucault e la biopolitica. Il pensiero può tessere una tela come il ragno e al pari di quel paziente cacciatore restarvi totalmente autorecluso, inconsapevole prigioniero. Anche quando la concepisce come una rete (network), apparentemente egualitaria nella sua tecnologica unidimensionalità, in cui ogni passaggio è anche un nodo. Non ricordo che venga esplicitamente citata Internet e nel testo l’esattezza lessicale ha indubbiamente una funzione fondativa. Nondimeno può percepirsi incombente (d’altronde ci viviamo dentro).

Nei molteplici intrecci dei fili distesi e raccolti lungo 200 pagine dal professor Catucci (insegna Estetica alla Sapienza) riemerge insistente ancorchè controversa la relazione tra soggettività e oggettività del pensiero materiale (Chi sono io, chi è Dio?). L’interesse ai suoi modi di procedere nel nostro sistema mentale. Sebbene il rapporto dell’una con l’altra sia espresso in senso scientifico e non empirico, quindi senza alcun riferimento all’immediata attualità, possono richiamare particolarmente l’attenzione del giornalista. Citando Gilles Deleuze e Felix Guattari, Maurice Merleau-Ponty, Martin Heidegger per esemplificare la non coincidenza dei punti di vista e concludere che la continua e contigua interazione della filosofia con la scienza sconsigliano più che mai affermazioni definitive. Rammenta invece il carattere evolutivo del loro rapporto. “Facciamo cose che al tempo stesso fanno noi…”, fa dire a Lambros Malafouris (suscitando echi gramsciani: “…siamo quel che facciamo…”). Non detta né interdetta, l’intelligenza artificiale, quell’invasivo dittongo AI che s’insinua come un’ineluttabile fatalità nel nostro pensare e agire, può trovarsi a volteggiare come un innominato fantasma nella sintassi d’un qualche lettore.

Quale archeologo del segno, Catucci si misura con tutti i codici linguistici e figurativi, dalla preistoria ai giorni nostri. Documentandosi con ogni letteratura disponibile, oltre la filosofia: dall’antropologia alla memorialistica, alla storia dell’arte, alla psicanalisi, alla biochimica, alla narrativa surrealista (Franz Kafka, ma anche Enrico Buonanno), senza dimenticare il giornalismo di qualità e d’avanguardia (Tiziano Terzani). Il tema attorno a cui vortica nel tempo e nello spazio, tuffandosi con i palombari nelle profondità marine e ascoltando gli astronauti dall’alto dei cieli, è: la connettività, la connessione. La totalità (fluida, cambiante, eppure ininterrotta) sta nel concetto d’interconnessione, che dalle incisioni sulla pietra giunge al filo di Arianna, al cucito, ai neuroni del cervello umano e più in là in una matassa ancora da decrittare. Ma è nel sublime spessore ricreativo e simbolico del cordone ombelicale che sebbene buttato via dopo l’imprescindibile uso (solo di recente ricerca e industria farmaceutica hanno preso a recuperarlo), troviamo la possibilità di trattenere un filo per ereditare in uno speciale moto dell’animo i molteplici vincoli della nascita.

Non si spiega altrimenti la diversione finale dell’autore nel suo unico cenno di cronaca personale e soggettivo, profondamente intimo: “E’ un torrido agosto, nell’attesa d’un tram bevo un sorso d’acqua fresca da una fontanella a pochi passi dalla casa dove i miei genitori trascorrono le giornate di una vecchiaia inevitabilmente occupata dalle malattie, proprio oggi improvvisamente aggravate”. Anche questo sentimento non sfugge tuttavia all’osservazione analitica del filosofo, che ne rileva l’instabilità. Tanto da lasciarsi subito richiamare da una scritta che legge di sguincio su un vicino palo dell’elettricità: “che giornata di merda”. Probabilmente concorda, però non lo dice. Lascia esprimere Hans-Georg Gadamer, per il quale l’interprete comprende meglio dell’autore. Nel senso -precisa Catucci- che è meglio seguire la seconda lettura. Il dubbio sarebbe tempo guadagnato. Anche rispetto al disagio della solitudine, di cui Jacques Lacan ci ricorda la ingiustificata soggettività, poiché: “moltitudini di persone e di cose sono connesse con noi anche quando siamo in solitudine”. Dunque siamo inesorabilmente connessi. A me, questa conclusione suggerisce che a maggior ragione quanti nonostante tutto hanno permanentemente bisogno di Internet, di un presunto antidoto non dovrebbero farne una malattia.


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