L’autonomia differenziata e gli apprendisti stregoni

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Come è potuto accadere che le pulsioni secessioniste teorizzate da Gianfranco Miglio e poste da Umberto Bossi al cuore della proposta politica della Lega Nord nei primi anni ’90 siano diventate legge dello Stato approvata nello scorso giugno (Legge sull’autonomia differenziata del 26 giugno 2024 n.86)? Il costituzionalista Francesco Pallante lo spiega in un agile saggio [Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese, Einaudi, Torino, 2024] che è una profonda e documentata riflessione sulle incongruenze giuridiche e sulle irregolarità procedurali, sulle incompatibilità costituzionali e sulle prevedibili gravissime ricadute nella vita di tutti noi della realizzazione di quella legge, fautrice di un drastico mutamento negli assetti del Paese.
Per tutti gli afflitti da amnesia le pagine di Pallante sono anche un proficuo riepilogo della storia degli ultimi trent’anni dal punto visuale del regionalismo all’italiana: vi si disegna infatti la deriva politica che, dal “pratone” di Pontida, passando per la discussa revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione – si badi, realizzata nel 2001 dall’Ulivo al governo, promotore Massimo D’Alema, in una funesta e vana rincorsa della Lega -, è approdata quest’estate in Parlamento. Qui è stata votata da una coalizione di governo, che vede la Lega minoritaria, ma capace di condizionare gli alleati in vista di un altro terremoto politico-istituzionale, voluto fortemente da questi ultimi, e cioè la cosiddetta riforma sul premierato. Tra gli aspetti più allarmanti del regionalismo differenziato introdotto dalla legge n.86 basti citare l’incredibile ampiezza e rilevanza delle competenze normative e gestionali che, esautorato lo Stato, potranno passare alle 15 regioni ordinarie, configurandole come veri e propri “Stati semindipendenti”. Conviene enumerarne almeno alcune: salute, istruzione (scuola, università e ricerca scientifica), lavoro, previdenza complementare, giustizia di pace. E poi paesaggio e beni culturali; tutela dell’ambiente, difesa del suolo, governo del territorio, infrastrutture, porti e aeroporti, protezione civile, rischio sismico, acque demaniali, servizio idrico, laghi. In ambito produttivo spiccano il commercio con l’estero, l’agricoltura, le politiche industriali, le camere di commercio, gli istituti di credito e persino la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia. E che dire dell’autonomia tributaria, delle zone franche e del coordinamento della finanza pubblica? Ciascuna regione potrà chiedere di disporre di tali funzioni e competenze nonché ottenere le risorse umane, strumentali e finanziarie per esercitarle. Chi invece non le chiederà o ne chiederà solo alcune continuerà a dipendere in toto o in parte dallo Stato, che quindi non smantellerà ministeri e organi amministrativi centrali. «Non è necessario essere Cassandra per profetizzare la confusione che ne scaturirà » commenta Pallante. Problemi di moltiplicazione burocratico-amministrativa e di coordinamento a parte, questa pletora di nuove amministrazioni regionali, diverse tra loro, avrà costi elevati, perdendosi nel localismo quell’economia di scala che la gestione unitaria centralizzata consente di realizzare. E il risultato saranno costi più elevati e servizi peggiori. A giustificare tale impressionante travaso di competenze e, in definitiva, di sovranità dal centro alle regioni i fautori della ristrutturazione localistica appena descritta evocano il valore aggiunto di controllabilità, democrazia e partecipazione che si produrrebbe negli scenari regionali. Eppure perché mai la classe politica dirigente regionale dovrebbe rivelarsi più capace e integra di quella eletta in Parlamento nel legiferare e progettare, disciplinare e governare tematiche così strategiche per il presente e il futuro del Paese quali la scuola e l’istruzione, la salute, l’ambiente e i beni culturali, l’energia, la finanza pubblica? E in virtù di quale miracolo i cittadini, che vediamo disertare le urne, dovrebbero diventare solerti controllori e attivi protagonisti del confronto con le istituzioni, non del comune, ma della regione? Pallante richiama casi emblematici che hanno dimostrato a iosa la corruttibilità di “governatori”, amministratori e funzionari locali – Mafia capitale, condanna definitiva di Formigoni, realizzazione del Mose – e cita l’esperienza vissuta drammaticamente durante le diverse ondate della pandemia del covid che mise a nudo incompetenze e superficialità delle gestioni regionali. A far luce sulle aspettative di fondo dei fautori del federalismo fiscale provvede la richiesta di autonomia tributaria, vero filo rosso che unifica la protostoria leghista, dallo slogan di «Roma ladrona» e dalla devoluscion, per usare il lessico lumbard, al presente. E qui si inseriscono i cosiddetti Livelli essenziali di prestazioni (Lep), ancora da definire nella sostanza e assai difficili da precisare e misurare al di là della genericità, ad esempio nel campo dell’istruzione o del lavoro. Comunque, una volta individuati questi Lep e i relativi costi standard per ciascun diritto costituzionale essi dovrebbero costituire il fabbisogno da assicurare a tutte le regioni, oltretutto sulla base di accordi separati Stato-regione, fatta salva la possibilità per quelle che hanno risorse in più derivanti da un maggior gettito fiscale o da una gestione efficiente di trattenerle e usarle nel proprio territorio.

E’ questa una visione grettamente contabile che trasforma i diritti individuali garantiti dalla Costituzione a tutti i cittadini indipendentemente da sesso, religione, provenienza etc. in diritti la cui titolarità spetta a un territorio, la regione, che eroga servizi e prestazioni solo entro il suo orizzonte. «Attribuire alle regioni – osserva Pallante – ciò che è proprio delle persone è una fallacia argomentativa insuperabile […] perché la Costituzione, agli artt.2 e 53 impone doveri di solidarietà economica, politica e sociale ai cittadini in quanto tali e non ai veneti nei confronti dei veneti, ai lombardi nei confronti dei lombardi» e così via.

Ma l’ispirazione antistatalista che sta al fondo viene da lontano. Si riassume nella “questione settentrionale”, descritta brutalmente a suo tempo da Miglio con l’immagine del Nord che produceva, pagava il conto e manteneva la baracca. L’antidoto proposto era che il Nord si tenesse le sue risorse, sottraendole allo sperpero statale e al resto della “baracca” parassitaria!

Da tutto ciò scaturisce la visione di una società frantumata, fondata sulla contrapposizione e competizione tra territori anziché sulla loro collaborazione in vista di una comune crescita civile. Il ruolo dello Stato e del Parlamento nell’operare la sintesi ed equa composizione dei diversi interessi locali è minimizzato. Ma soprattutto viene smantellato il principio dell’uguaglianza, valore fondante e costitutivo della nostra comunità nazionale. Non siamo dunque in presenza di un aggiustamento degli assetti strutturali del Paese, ma di un suo ribaltamento e di un attacco frontale alla Costituzione, di cui si nega il principio ispiratore.

Eppure lo scorso 17 marzo al congresso della Cgil la presidentessa del Consiglio rievocando l’unità d’Italia ne sottolineava il valore come ”interesse superiore” e “comune destino”. Ma la legge n.86 non va proprio verso la dis-unità? Il successo della raccolta di firme per il referendum sembra dimostrare che tale significato è chiaro a molti.

(Nella foto il professor Francesco Pallante)


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