“La vita accanto”, di Marco Tullio Giordana, Italia, 2024

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Con Sonia Bergamasco, Paolo Pierobon, Beatrice Barison, Valentina Bellè, Sara Ciocca, Michela Cescon.

Ci sono film, come questo, che si fa fatica a giudicare ed a scriverne.
Il tema c’è ed è forte: la diversità. Sostanziata in un vasto angioma rosso collocato sul viso di una donna, Rebecca, fin dalla nascita. Una macchia rossa che invade lo spazio e la psiche di quanti hanno a condividerne le conseguenze. Innanzitutto, la madre di Rebecca, Maria, che non accetta, ritenendosene anche la colpevole, la condizione della figlia, al punto tale di suicidarsi dopo anni di sofferenze psichiche. Inevitabile, a questo punto, sottolineare come il film, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Mariapia Veladiano, sia stato scritto anche da Marco Bellocchio (insieme allo stesso Giordana e a Gloria Malatesta), e non essendo mai stato il regista piacentino uno sceneggiatore per altri, è logico pensare che la direzione del film avrebbe dovuto essere sua, e proprio la tematica del film sopra accennata (la famiglia borghese, il disagio psicologico, il suicidio) ne è la conferma. Oltretutto, per chi conosce il cinema di Giordana, pochi sono gli agganci di questa storia con la sua poetica, fatta, soprattutto, di impegno sociale (vedi film come lo splendido esordio, “Maledetti vi amerò”, 1980, o i più celebri “Pasolini, un delitto italiano” e “I cento passi” sulla vita del martire antimafia Peppino Impastato). Viceversa, l’anima bellocchiana emerge con grande forza nello stesso intreccio narrativo, che si sviluppa attraverso la forte e decisiva presenza parentale, di cui fanno parte anche il padre di Rebecca, Osvaldo, noto ginecologo, e la zia Erminia, sorella del padre e sua gemella (altro forte riferimento bellocchiano, vedi “Gli occhi, la bocca”). Ed è proprio l’incedere analitico del film l’elemento che più funziona, la progressiva crescita di Rebecca con addosso una “problematica” che non è solo sua ma di tutti, in primis della madre, con la quale instaurerà un rapporto di amore-odio, esplicitato in tante situazioni oniriche (anche queste tutte bellocchiane) che danno allo spettatore il senso del dramma interiore vissuto dai protagonisti. Questi sono i momenti migliori di un’opera tesa a sviscerare gli inevitabili drammi familiari, esaltati qui dalla non accettazione di una certa condizione fisica, ma comuni a tutti perchè fisiologicamente legati alla crescita e all’acquisizione necessaria dell’indipendenza dai genitori come primo passo per una libertà dai vincoli cui la società ci costringe (e come non pensare al capolavoro “I pugni in tasca” dello stesso Bellocchio?). Sostanzialmente, il film di Giordana (e Bellocchio) è un film sulla diversità, con l’angioma a fare da metafora forte ed inchiodante come soltanto la sintesi cinematografica della vita impone. Siamo tutti Rebecca, abbiamo tutti, inevitabilmente, un angioma più o meno visibile con cui fare i conti e che ci segnerà per tutta la vita, dai rapporti familiari a quelli intrapersonali e sociali. Ed il finale del film lo indica in pieno, con quello splendido primo piano di Rebecca che, dinnanzi al medico che le conferma come l’angioma, improvvisamente scomparso, non ritornerà più, punta lo sguardo su noi spettatori senza nessuna felicità esplicitata, anzi con un attimo di perplessità, giusto perchè ormai l’angioma Rebecca se lo portava dentro, l’aveva formata definitivamente, le apparteneva comunque, come condizione mentale, come chiave di volta per comprendere la realtà circostante, e per questo ormai forse lo amava anche. Ciò che, invece, non convince del film, e sembra messo lì da Giordana solo per rendere più accettabile agli spettatori questa dolorosa e inevitabile condizione umana di tutti, è il rapporto di Rebecca con l’amica d’infanzia Lucilla. Anche quest’ultima ha il suo “angioma”, una famiglia disfunzionale, e non a caso proletaria (il disagio mentale non è solo borghese, e di questo ci informò già Antonioni ne “Il grido”, 1957) con un padre violento, che essa stessa “ucciderà” spingendolo dalla finestra per difendere la madre dall’ennesimo litigio con il marito. Cresciuta e ritrovatasi con Rebecca, Lucilla sembra indicare all’amica la strada verso la liberazione da tutto, con una esaltazione volontaristica dell’Io che contrasta con quanto la parte bellocchiana del film aveva fatto emergere. Non è nel viaggio, nella permanenza all’estero o nello spocchioso “vantarsi” di aver eliminato il padre violento che l’uomo si libera dai suoi “angiomi”, nè tantomeno può essere l’amicizia (peraltro fondamentale, per carità) a ridarci quella felicità che non ci apparterrà mai. Ciò che conta più di tutto è la presa di coscienza che gradatamente, e con grande sofferenza, quella che tutti noi conosciamo, Rebecca ha acquisito, e che ne ha fatto una donna finalmente libera da paure ed inibizioni. Sì, da sempre, Leopardi è uno degli ispiratori silenziosi di Bellocchio. Peccato che l’autore de “L’ora di religione” non abbia voluto fare completamente suo questo film, che senza queste finali note consolatorie sarebbe risultato essere uno dei migliori dell’anno.


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