Enzo Baldoni, assassinato vent’anni fa in Iraq in circostanze tuttora da chiarire, non era un grande giornalista nel senso che intendiamo oggi. Non conduceva, infatti, talk, non scriveva su giornali di primo piano, non era un volto televisivo; insomma, attualmente sarebbe considerato un cronista di seconda fila. Eppure, almeno per me, e non solo per me, è stato uno dei più grandi in assoluto. Perché Enzo era, prima di tutto, una splendida persona, oltre che un’ottima penna e uno che consumava le scarpe, andando a vedere con i propri occhi cosa accadeva negli inferni del mondo. C’era a Genova nel 2001, c’era in Iraq durante una delle “missioni di pace” cui l’Italia prese obbedientemente parte e la scelta di esserci, purtroppo, gli è costata la vita. Scriveva per il “Diario” di Enrico Deaglio: una creatura preziosa, della quale ora avremmo più che mai bisogno, capace di essere presente là dove altri scappavano, di raccontare ciò che altri ignoravano, di non tirarsi mai indietro e di puntare su un giornalismo di altissima qualità, caratterizzato da uno stile narrativo e da una passione civile autentica. Ecco, Enzo era perfetto per quel contesto, con la sua ironia, la sua gentilezza, il suo modo di fare scanzonato, il suo slancio vitale, la sua attenzione nei confronti del prossimo e la sua innata dote di saper ridere anche nei momenti più difficili. Sapeva scherzare, Enzo, lo riteneva un antidoto all’orrore. Era una persona perbene ed era felice solo se lo erano anche gli altri. Era sereno, determinato, convinto di essere nel giusto. Non faceva quel che faceva per diventare qualcuno ma per farci sapere qualcosa. Considerava il giornalismo una missione, ma senza mai usare toni esagerati, sdrammatizzando anche nei momenti più dolorosi. Sapeva guardare negli occhi la tristezza e poi restituircela con parole adeguate, mai retoriche, meno che mai ossequiose nei confronti di un qualche potere. Per Baldoni, difatti, il potere era comunque un avversario: non per ribellione ma per necessità. Era contrario al potere che decideva le guerre e i bombardamenti e all’acquiescenza di chi trovava giustificazioni all’ingiustificabile. Era contrario alla ferocia e a chiunque se ne rendesse protagonista. Era contrario al terrorismo, compreso quello occidentale, e non si faceva problemi a scriverlo. Anche per questo, per la sua totale assenza di ipocrisia, non è mai diventato “famoso”, almeno nel senso deteriore che viene attribuito adesso a quest’aggettivo.
Enzo Baldoni era un sognatore concreto, un utopista non pentito, un giornalista-giornalista, un galantuomo nel senso vero del termine e un combattente in nome dell’umanità, contro ogni forma di oppressione e di sopruso.
Già vent’anni, e sappiamo per certo che, se fosse ancora fra noi, sarebbe tornato a Genova a raccontare come sono cambiate le vite di chi vi ha perso la gioventù, sarebbe andato in Grecia a vedere in che condizioni fossero costretti a vivere i poveri cristi sottoposti al regime di austerità imposto da un’Europa dimentica delle ragioni per cui era nata, avrebbe narrato il Covid dalla parte di chi ne ha patito le conseguenze peggiori, soprattutto in termini economici, e infine si sarebbe recato in Afghanistan, in occasione del ritorno dei talebani, per ribadire che non esiste alcuna guerra giusta, e poi in Ucraina, per descrivere la barbarie con il suo sguardo disincantato e sempre pronto a prendere le parti dei popoli, opponendosi con lo stesso vigore sia al regime putiniano sia al bellicismo che impera alle nostre latitudini. Peccato che Baldoni non ci sia più, come non c’è più il “Diario”. Vent’anni dopo ci rendiamo conto di aver smarrito, insieme a tante voci scomode, la dignità della nostra professione.
A Enzo la nostra gratitudine, alla sua famiglia il nostro abbraccio. Brillava in lui una bellezza che oggi s’è perduta. E ci manca, disperatamente.
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