Mentre il mondo si chiede se attaccherà o meno Israele, l’Iran continua ad attaccare (e la cosa suscita meno preoccupazione e meno indignazione, nonostante accada da oltre quattro decenni) oppositori e dissidenti, con uno degli strumenti preferiti del suo ampio apparato repressivo: la pena di morte.
All’alba del 6 agosto, Gholamreza Rasaei, 34 anni, appartenente alla minoranza etnica curda e a quella religiosa yaresan, è stato impiccato in segreto nella provincia di Kermanshah.
Le autorità non hanno dato alcun preavviso né a lui, né alla sua famiglia, né al suo avvocato. Poche ore dopo averli informati a esecuzione avvenuta, i familiari sono stati crudelmente costretti a seppellire il corpo di Rasaei in una zona remota, lontano dalla loro casa e sotto la sorveglianza delle forze di polizia.
Rasaei era stato condannato a morte il 7 ottobre 2023 dopo un processo gravemente iniquo basato sulla “confessione” di aver ucciso una guardia rivoluzionaria, resa sotto coercizione e mediante maltrattamenti e torture, tra cui percosse, scosse elettriche, soffocamento e violenza sessuale.
Con quella di Rasaei, sono dieci le persone collegate al movimento di protesta Donna Vita Libertà messe a morte negli ultimi due anni e mezzo.
Il prossimo sul nastro trasportatore della morte potrebbe essere Mojahed Kourkouri, condannato a morte il 24 dicembre 2023 al termine di un periodo di isolamento e tortura a seguito della consueta “confessione” forzata: aver ucciso un bambino durante una manifestazione nella provincia del Khuzestan.
Kourkouri è stato giudicato colpevole dei reati di moharebeh (guerra contro Dio), efsad-e fel arz (corruzione sulla terra) e baghi (ribellione armata contro lo stato).
Lo scorso anno in Iran Amnesty International aveva registrato almeno 853 esecuzioni. Nel 2024 le autorità iraniane procedono a livelli allarmanti: secondo il Centro Abdorrahman Boroumand per i diritti umani in Iran, al 30 giugno le impiccagioni erano state almeno 274; per Iran Human Rights, al 13 agosto il numero era salito a 356