Il sacrifico di Jim e gli altri, fino a dove è giusto spingersi per dare voce a chi non ce l’ha?

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Dieci anni fa, il 19 agosto del 2014, veniva ucciso Janes Foley, giornalista del Global Post rapiti e decapitati dall’Isisi. Elaborati nel tempo tempo, il dolore e la rabbia, dopo aver lasciato spazio al cordoglio e alla memoria, è giusto celebrarne l’esempio virtuoso di buon giornalismo e di uomo straordinario. James non meritava L’atroce morte che gli hanno inflitto carnefici senza scrupoli.
Proprio lui tanto generoso ha subito la più crudele delle violenze.
Ma più che la sua atroce fine, voglio ricordare la sua bellissima e luminosa vita. Fatta di coraggio e intraprendenza. E tanta gentilezza.
Metteva a disposizione di qualunque collega che non era mai stato prima in zona di guerra la sua esperienza, non esitava a dare consigli. Dopo avere passato anni a raccontare i conflitti, sapeva quando abbassarsi, quando correre. Anche se poi era sempre l’ultimo a scappare. Ha pagato con la vita il suo coraggio.
Un esempio virtuoso  per chi voglia comprendere fino in fondo cosa spinge un “Giornalista giornalista” a fare bene, fino in fondo, il proprio dovere. Anche quando per documentare un fatto che altrimenti rimarrebbe oscurato corri dei rischi.

Jim, diminutivo che preferiva al più formale James, non era soltanto un giornalista in gamba che quando arrivava sul campo un nuovo collega, mai stato prima in una zona di guerra, lo aiutava e incoraggiava. Era una persona che si poteva ‘solo’ amare. A chiunque, e dovunque, Jim piaceva. Da subito. Appena dopo averlo incontrato era scontato che suscitasse simpatia.
È inevitabile a questo punto, almeno per la sottoscritta, non accostare al suo, il ricordo di un altro collega e amico che in circostanze simili ha perso la vita per dare voce a chi non l’aveva: Tim Hetherington.
Quando Tin nell’aprile del 2011, a soli 41 anni, è stato colpito a morte da un proiettile shrapnel di un mortaio in Libia, nell’inferno di Misurata, ho perso un amico e un riferimento importante.
L’empatia che dal primo momento era scaturita tra noi, quando lo avevo incontrato nell’ottobre 2010 a Londra, ha contraddistinto da subito il nostro legame, saldato dalla passione per i diritti umani.”Ciò che faccio, ogni scatto, ogni fotogramma di reportage che monto, mi coinvolge a livello emotivo”, mi disse quando parlammo del suo lavoro per Human Right watch per la campagna sul Darfur che coinvolgeva anche me. E oggi, leggendo quanto scriveva e diceva Jim, ritrovo tanto di lui e di altri che hanno dato o rischiano la vita ogni giorno per fare informazione e per raccontare la realtà così come si presenta, senza filtri e senza censura.
Quando colleghi animati da questi ideali sono consapevoli di rischiare sulla propria pelle, come Tim e James Foley, difficilmente si tirano indietro. Non ho mai incontrato Jim, ma ho avuto la fortuna di conoscere altri giornalisti che di fronte a situazioni di grande criticità e questioni off-limits non si sono arresi. Da loro ho imparato che bisogna avere la forza di denunciare le vessazioni e gli abusi che avvengono in qualsiasi luogo perché lasciare che essi rimangano nel silenzio e siano perpetrati impunemente è, come diceva Martin Luther King, una minaccia per la giustizia ovunque.
Alcuni di questi non ci sono più. Alcuni incrociati un paio di volte, come Gilles Jacquier, fotoreporter di France 2 ucciso nel gennaio del 2012 in Siria. O che conoscevo bene, come Tim, come Enzo Baldoni, che insieme agli amici di Articolo 22 ricorderemo il 26 agosto.
E proprio pensando a storie e persone come Jim, Gilles, Tim, Enzo – senza dimenticare Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Andrea Rocchelli e tanti altri, e alla loro intensa, incondizionata capacità di raccontare le storie di chi non ha voce, appare ancor più stridente l’indifferenza del mondo dell’informazione italiano nei confronti di temi importanti come i diritti umani e le crisi dimenticate.


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