La rubrica “Dalla parte di Lei” di questo mese di agosto è dedicata alla figura di Goliarda Sapienza di cui ricorre quest’anno il primo centenario della nascita (10 maggio 1924), mentre proprio in questi giorni cadono i ventotto anni dalla sua scomparsa (30 agosto 1996).
Fino a qualche anno fa, Goliarda Sapienza poteva ascriversi alla folta schiera delle «scrittrici senza fama» per quel fenomeno diffuso di occultamento e di invisibilità delle donne dalla scena pubblica e in particolare dalla storia letteraria. Di recente, Daniela Brogi analizzando il fenomeno dell’«assenza delle donne e delle autrici dalla considerazione e dalle pratiche di riconoscimento pubblico» ha usato un’immagine molto efficace: «un’elefantessa intrappolata in una stanza dove si continua a conversare amabilmente, fingendo di non vedere». In anni recenti, grazie anche alla ricorrenza del centenario e alla caparbia e perseverante attenzione di diverse studiose che si sono prese cura dei suoi testi, rendendoli disponibili sul mercato editoriale, l’«elefantessa intrappolata» Goliarda Sapienza è stata restituita alla sua visibilità, facendo conoscere la sua straordinaria originalità di pensiero e di scrittura. Scriveva qualche anno fa Giovanna Provvidenti, una delle prime ad essersi immersa nei suoi lavori: «Goliarda non esiste. Lei è l’esistenza», volendo così sottolineare un tratto della personalità che caratterizzava sia la donna che l’artista: la capacità di mettersi in gioco sempre e con una sincera passionalità. Goliarda «era un tipo di donna che incuteva negli altri desiderio di autenticità. E ancora oggi lo fa: attraverso la sua opera letteraria». Per lei conoscere il mondo era una necessità irrinunciabile. Attraverso una scrittura che sa essere ‘politica’ e ‘autobiografica’ allo stesso tempo, Goliarda usa una parola onesta, quella che sa andare vicino alla realtà delle cose; e svela l’estrema problematicità e complessità dell’esistenza umana, prefigurando, nel contempo, una vita migliore. Il suo imperativo categorico è osare interrogarsi, calarsi fino alle radici del proprio sé, accettando la sofferenza, lasciandosi attraversare da dolore, ambiguità, bugie, contraddizioni, paure, desideri simbolici e reali. Nata in una famiglia non convenzionale, una «famiglia che non smette mai di crescere», Goliarda è «l’ultima figlia» di Maria Giudice, che Maria Rosa Cutrufelli (nel suo ultimo lavoro a lei dedicato Maria Giudice, Roma, Perrone editore, 2022) definisce «la leonessa del socialismo». In questa famiglia dalle tante anime e dai tanti volti, Goliarda ha modo di sviluppare le sue doti artistiche di attrice, ballerina, cantante e affabulatrice fin da bambina e adolescente; i suoi “successi” di enfant prodige, apprezzati da tutta la famiglia, si alternano però ad una salute precaria e con malattie lunghe e serie. Una svolta importante nella sua vita avviene nel 1943 quando si trasferisce con la madre a Roma, perché ha vinto una borsa di studio che le permette di frequentare l’Accademia nazionale d’Arte drammatica, diretta da Silvio D’amico. Fare l’attrice è nelle sue corde: verso l’arte drammatica l’aveva indirizzata il padre fin da bambina e poi l’aveva iscritta all’Accademia. Ma Goliarda non trascura i suggerimenti materni: «Farò l’artista, come vuole mio padre; studierò, come vuole mia madre».
Goliarda Sapienza è oggi riconosciuta tra le maggiori scrittrici letterarie italiane del Novecento.
Alessandra Trevisan con questo suo contributo ci guida dentro alcuni dei lavori più significativi dell’opera di Goliarda. Alessandra Trevisan ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Italianistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato la monografia «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza (Aracne 2020) e articoli su Adele Cambria, Matilde Serao, Anna Maria Ortese e altre autrici, tra cui Milena Milani, cui ha dedicato il saggio Milena Milani. Un invito alla lettura (Digressioni 2024). Nel 2020 ha fondato con altre il collettivo Le Ortique. Attualmente è insegnante di scuola secondaria.
(Adriana Chemello)
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Il corpo libertario e autobiografico di Goliarda Sapienza (1924-1996)
L’occasione del centenario di Goliarda Sapienza (1924-1996), insieme alle numerose conferenze organizzate tra Italia e Francia quest’anno, offre l’opportunità di riscoprire quest’autrice poliedrica ma anche di rileggere pagine inedite o poco note della sua storia. Nella rubrica «Dalla parte di lei», ci immergeremo nella storia della sua famiglia e nella prima versione del suo romanzo d’esordio, Lettera aperta (Garzanti 1967), esplorando la vita e l’opera di una donna che ha vissuto con passione, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura e nella cultura del suo tempo.
Figura caleidoscopica nel panorama culturale italiano, scrittrice di poesie, racconti e romanzi, Goliarda Sapienza è nota per L’arte della gioia (Einaudi 2008), unico esempio di pura fiction tra le sue opere, diventato una serie televisiva diretta da Valeria Golino. Ma la sua creatività non si fermava alla letteratura. Sapienza è stata anche attrice di teatro e cinema – collaborò, tra gli altri con Luchino Visconti e fu vicina a Cesare Zavattini – autrice di pièce e soggetti cinematografici, insegnante di recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e giornalista culturale. I pioneristici studi di Giovanna Providenti, (https://www.enciclopediadelledonne.it/edd.nsf/biografie/goliarda-sapienza/), testimoniano la sua inesauribile energia e la volontà ineluttabile di sperimentare la vita in ogni forma. Tuttavia, come è accaduto a molte scrittrici nei secoli, anche Sapienza ha vissuto – talvolta – ai margini del panorama culturale del suo tempo, restando in parte sconosciuta sino ad anni recenti.
La sua famiglia anarco-socialista, nata dall’incontro di Maria Giudice, protofemminista di origine pavese e tra le prime sindacaliste italiane, e Peppino Sapienza, avvocato catanese vicino alle classi povere, le aveva fornito una solida base di valori e ideali. I suoi genitori, convinti antifascisti e coppia congiunta in “libera unione” dunque senza matrimonio, nei primi anni Venti avevano riunito la rispettiva prole nella casa del quartiere di San Berillo, a Catania. Pur essendo lei nata a Palazzo Fischetti, in Piazza Cappellini (oggi Piazza Falcone) secondo le ricerche di Fabio Cardile (https://www.sicilianorigins.com/it/goliarda-sapienza-scoperta-la-casa-natale/), la sua vita si è mossa in un luogo diverso.
Questi elementi si riflettono profondamente nelle sue opere autobiografiche. Goliarda stessa, nel documentario del 1994 di Virginia Onorato e Anna Amendola per la Rai, dichiarava: «E, non avendomi dato Dio, cosa mi hanno dato? Il teatro e il loro marxismo primario». Una frase che cattura l’essenza della sua formazione, non sempre facile benché anticonformista.
La vicinanza di fratelli e sorelle è stata determinante per la scoperta del mondo durante l’infanzia: da dieci erano rimasti in sette: tre fratelli erano morti «nella lotta contro il padronato e poi contro il fascismo». Peppino Sapienza aveva avuto tre figli da un’altra donna: Libero Salvatore, Carlo Marx e Goliardo-Danilo detto Iuzzu, morto in circostanze misteriose nel 1921. Goliarda porta il suo nome come racconta in Lettera aperta: un nome inimitabile, che rimanda a quello dei “goliardi” medievali – quasi degli odierni artisti di strada – ma anche un nome che riflette il destino di chi userà sempre la propria voce per creare, sul palco come sulla pagina (c’è la “gula” dell’attrice nell’etimologia).
Libero (Armino nei romanzi) è un musicista che avvicina Goliarda bambina al pianoforte; Carlo è il fratello che combatte in Etiopia. Josina, Cosetta (Musetta), Olga e Licia sono le figlie dalla parte di Maria Giudice, nate dalla relazione con Carlo Civardi, un anarchico caduto durante la Prima guerra mondiale, cui si aggiungono Jose, uno dei fratelli morti prematuramente, e Ivanoe, il fratello più amato, studente di medicina colui che procurerà il latte artificiale per nutrire la piccola Goliarda, salvandola dalla morte per inedia. Queste presenze salvifiche formano la sua costellazione familiare, anche se vanno e vengono in modo discontinuo, allontanandosi da quella casa negli anni, mentre i genitori entrano ed escono di prigione e Goliarda resta sola. Il mondo catanese che lei trasferisce nella sua scrittura è, perciò, ricco di ricordi veri e rimaneggiati, nutriti di bugie: d’altronde Lettera aperta è costruito proprio sull’ambiguità che caratterizza la memoria dell’autrice.
Partendo da queste radici genealogiche, ci si può immergere nel cuore pulsante della sua narrativa, densa e vibrante, che darà vita a personaggi come Modesta de L’arte della gioia: non un suo alter ego ma un unicum nella storia della letteratura. Un personaggio che incarna una esistenza libertaria, in linea con la visione di Michel Onfray, che definisce «l’anarchia non tanto un’ideologia, ma come una pratica vitale».
La vicenda di Modesta – complessa e affascinante – si svolge in Sicilia dal 1900 in avanti, in un contesto storico e sociale segnato da profonde disuguaglianze di genere e di classe. Dopo un’infanzia segnata dalla povertà e dalla violenza, Modesta sviluppa presto il desiderio di emanciparsi: da adolescente, inizia la sua scalata sociale, prima nel convento che la accoglie fin da bambina e poi nella proprietà della principessa Brandiforti. La sua ambizione è guidata dalla volontà di autodeterminazione e dalla necessità di vivere la propria sessualità liberamente, sia con gli uomini che con le donne. Il sistema allargato di relazioni che costruisce, infatti, è nuovo per la sua epoca: Modesta riconosce in una sorta di famiglia allargata e inclusiva il proprio destino. Il contesto storico e politico serve da sfondo alla sua evoluzione come figura femminile sui generis, assetata di vita – e per certi versi di potere –, in grado di autodeterminarsi attraverso un’esistenza intensa e ricca di sfide.
La carriera di Goliarda Sapienza, tuttavia, incomincia con Lettera aperta, scritto tra il 1962 e il 1965, è stato pubblicato grazie al sostegno di figure come Attilio Bertolucci, Livio Garzanti e l’editor Enzo Siciliano, oltre agli amici Vera De Seta e Alessandro Blasetti, come emerge dall’epistolario Lettere e biglietti (La nave di Teseo 2021).
La storia della temeraria famiglia Giudice-Sapienza che abbiamo poco fa tratteggiato è attraversata dai racconti dei giochi di quartiere nella Civita di Catania, dall’approccio alle arti inclusa quella dei Pupi, e dalla scoperta della sessualità con la sorellastra Nica. L’educazione domestica con il Professor Jsaya, il teatro come approdo, le vicende dei genitori perseguitati dal regime, ma anche il ricordo dei suoi nonni – il carbonaro Ernesto Bernini ed Ernesta Bernini – completano questo vivido affresco di vita, nutrendo lo stile in evoluzione di Sapienza. Il suo ciclo autobiografico, dichiaratamente «in progress», proseguirà poi con Il filo di mezzogiorno (Garzanti 1969), centrato su un percorso psicanalitico, L’università di Rebibbia (Rizzoli 1983) e Le certezze del dubbio (Pellicanolibri 1987), che esplorano la sua breve e intensa esperienza carceraria.
L’educazione all’indipendenza dell’“atipica famiglia” Giudice-Sapienza si riflette nell’essere autodidatta di Goliarda, facendola maturare molto presto. Come racconta, il padre sceglie di non mandarla più a scuola, facendole bruciare la divisa di ‘piccola italiana’ imposta in quegli anni dal regime fascista, mentre lei, in solitudine, inizia a imparare a memoria il teatro e a leggere per sé stessa:
A scuola non ci andai più, dopo che una sera, tornando a casa con la divisa di piccola italiana, incontrai nelle scale l’avvocato: «Che fai con quella maschera schifosa?». Andai in terrazza e la bruciai con le cimici, e non tornai più in quella quarta ginnasio piena di pidocchi. Leggevo tutto il giorno – studiare non potevo, mi veniva sonno – leggevo e imparavo a memoria tutti i lavori teatrali che trovavo per casa. La notte poi li recitavo da sola facendo tutte le parti, come i pupari. (LA, cap. 41)
Le sue inclinazioni le fanno scoprire un mestiere e le danno forza, mentre le letture onnivore approfondiscono la sua formazione.
Nella versione integrale e inedita di Lettera aperta scopriamo una scrittura ricca di digressioni ma anche la vasta biblioteca di trame (o il “baule mentale”) colmo di vicende traumatiche. Tra queste c’è il complesso rapporto con la madre Maria e il ruolo di partigiana nella Resistenza romana, presentati ne Il filo di mezzogiorno.
In Lettera aperta Goliarda adulta dialoga con la bambina che era, conversando con le “maschere” delle sue letture: da Stendhal a Cechov, da T. S. Eliot a Dostoevskij, da Leopardi fino a Simone De Beauvoir e Virginia Woolf – tra questi l’editor farà sopravvivere solo l’amato Pirandello. Non mancano alcuni protagonisti del presente, come Ercole Maselli, critico d’arte e padre di Citto Maselli, che sarà il compagno di Sapienza per vent’anni, e dello psicanalista (Ignazio Majore), poi co-protagonista del Filo – evidentemente omesso nel primo romanzo. La redazione primigenia rivela, perciò, il magma creativo in cui nuota la voce lavica e originale di Goliarda Sapienza, prima di diventare la scrittrice che conosciamo oggi.
È più spesso nei Taccuini (ora Scrittura dell’anima nuda, Einaudi 2022) che leggiamo le sue riflessioni anticlericali, già presenti nel primo romanzo:
Non temo la morte. Temo il delitto che c’è in natura che uccide a tradimento, prematuramente. […] Questo temo: la natura criminale. Leopardi lo aveva detto, ridetto e ripetuto, io l’ho capito solo oggi. Un po’ tarda, no? Sì, lo sono. La natura è criminale; il diavolo esiste e Dio è un’invenzione degli uomini per calmare la loro paura davanti al fulmine, ai vulcani ai segreti della materia, infatti, leggi l’Antico Testamento, è il parto di menti primitive, non ancora in possesso di nessun mezzo per dominare gli elementi. Oggi, forse, avrebbero inventato qualche altra cosa. In gergo teatrale si direbbe che: il Diavolo è il protagonista senza efficacia. [LA versione integrale (I), cap. VIII, pp. 59-61][1]
Secondo Viviana Fiorentino: «la forza del dissenso di Sapienza è una ferocia leopardiana rovesciata, tutta incarnata in una voce dalle corde femminili». È una donna che non si censura ed esprime un pensiero ecocritico ante-litteram rappresentando la relazione tra l’umano e la natura, una visione della vita e della morte biopolitiche e un rapporto complicato con la religione. Sono gli anni della Democrazia Cristiana al potere e che precedono il Sessantotto: questo romanzo crea una frattura con ciò che le donne stanno vivendo.
Sapienza aveva già sperimentato, dopo la scomparsa della madre nel 1953, lunghi periodi di depressione, gli elettroshock e un’analisi freudiana piuttosto “selvaggia” secondo Angelo Pellegrino, erede di Sapienza. Mettersi in discussione è per lei conoscersi come outsider nella parola e nel corpo, seguendo l’urgenza dello scrivere soprattutto per essere sé stessa.
Lettera aperta ottenne immediatamente molte recensioni su quotidiani importanti, dal «Corriere della Sera» a «Panorama», ma non tutti lo apprezzarono e soprattutto lo capirono.
Si tratta di un libro composto di capitoli brevi, adattato al mercato editoriale e pensato da Siciliano e Livio Garzanti per vincere riconoscimenti importanti, tra cui il Premio Strega, dove fu sostenuto da Bertolucci e Natalia Ginzburg, e il Premio Viareggio, dove avrebbe potuto vincere come Opera Prima. Tuttavia, non riuscì ad entrare in finale in nessuno dei due concorsi.
La traduttrice di Sapienza in Francia Nathalie Castagné – autrice della prima monografia oltralpe: Vies, morts et renaissances de Goliarda Sapienza (Seuil 2024) – condivide questa posizione: il lavoro di editing di Siciliano non fu censorio ma pragmatico. Forse le riflessioni avrebbero distratto i lettori, cui Sapienza fa continuamente appello:
Ve l’avevo detto che avrei anche mentito. […] Cercherò di spiegarmi meglio: quando cominciai a scrivere, lavorai ad un romanzo – ottocento pagine! – cercando di nascondermi dietro un nome maschile. Poi mi accorsi che erano cose mie che non avendo il coraggio di dire, appioppavo a quel povero protagonista. Insomma la solita donna che per avere il coraggio di parlare si traveste di panni maschili. Lo capii leggendo il saggio della De Beauvoir Il secondo sesso e se c’è fra voi, qualche ragazza che porta la cravatta o gli sta spuntando la barba, le consiglio di tralasciare questo discorso e di leggersi quel libro prezioso. Bene, capito questo – fra il capire e l’agire c’è di mezzo… no, non il mare ma le emozioni. [LA, seconda redazione (A), cap. XII, pp. 45-46]
Fare autobiografia è necessario per lei: in questo senso, quando cita Simone De Beauvoir, che aveva letto e assimilato, sembra voglia comunicare la sua estrema difficoltà di riconoscersi come “autrice” e come donna che ha dovuto svestire quella «corazza di virilità» impostale dall’educazione anarchica eppure inflessibile, mentre le emozioni sono quelle non accettate dall’ambiente impegnato del secondo dopoguerra, legato specialmente al Partito Comunista Italiano di cui faceva parte il suo compagno Citto Maselli. “Agire per essere” diventa un auto-esercizio.
L’occasione del centenario della nascita regala alle lettrici e ai lettori il volume corale Sapienza A-Z, curato da Maria Rizzarelli (Electa 2024), in cui studiose e studiosi fanno il punto sull’opera della scrittrice, aprendo nuovi scenari, e Mario Martone annuncia la realizzazione di un film, ispirato ai romanzi carcerari, con Valeria Golino nei panni di Goliarda Sapienza. L’attrice, a metà anni Ottanta sua allieva di dizione, ora è meritatamente una “sorella di schermo”.
«Il calendario non mi segue» scriveva Goliarda nei Taccuini del luglio 1991, in cui cita l’amato scrittore Henry James. Ma “il calendario” e il perdersi che caratterizzano la sua esistenza e la sua creatività non silenziano la sua voce, anzi: la portano a passi svelti verso la liberazione da ogni simulazione.
La sua incandescente libertà nasce dentro una mancanza di appello istituzionale e dall’assenza della militanza nel suo percorso – non aderirà mai ai movimenti femministi degli anni Settanta, pur appoggiandoli, talvolta, negli anni Ottanta. Estranea alle pose – come ha ribadito più volte Stefania Lucamante, nel corso di questo lungo anno di convegni dedicato al centenario – Goliarda Sapienza reifica il proprio sé soltanto attraverso il suo personaggio autobiografico e Modesta, personificazione di una distanza da tutti gli –ismi del Novecento, messi in pratica per rovesciarli. Oggi, grazie al pubblico, è diventata anche un’autrice queer, figura di riferimento per la difesa dei diritti LGBTQ+; tuttavia non sapremo mai se lei desiderasse davvero trasformarsi in un’icona.
Ivano Fossati, a proposito di Giorgio Gaber, ha affermato: «Era un uomo libero ma senza retorica. Se guardiamo questo concetto senza la retorica che ci mette in sospetto, allora sappiamo perfettamente quanto dovesse essere anche difficile, per lui, essere così libero» (nel documentario Io, noi e Gaber di Riccardo Milani, 2023). Possiamo parafrasare questo concetto per Goliarda Sapienza: una donna senza retorica e libera, che ha dovuto – a differenza di Gaber – far strada alla propria intelligenza, dimostrando a fatica quanto l’essere a-retorica e donna le fosse costato. Un’audace “controintellettuale”, come la sua Modesta.
[1] Questa e la seconda citazione che leggiamo, così come alcuni contenuti qui presentati, sono tratti da A. Trevisan, «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza, Aracne, 2020.
(Alessandra Trevisan)