I democratici e il principio di realtà

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Passata la paura, potremmo dire l’autentico terrore, per una sconfitta che solo un mese fa sembrava certa, con il declinante Biden costretto a fare i conti con le incertezze e i malanni provocati dall’età e il combattente Trump, scampato a un attentato, che incitava la folla dei suoi sostenitori a combattere fino alla fine, ecco che alla Convention di Chicago i democratici hanno celebrato la propria resurrezione. Una candidata più contemporanea, Kamala Harris, vice di Biden ma in grado di narrare una storia diversa, più in sintonia con la nuova America multiculturale e multietnica, un gruppo dirigente capace di affiancare ai mostri sacri (Clinton, Pelosi e Obama) una nutrita pattuglia di giovani di valore, l’intervento di esponenti dello star system come il demiurgo del nuovo Dream Team di basket, Stephen Kerr, e l’immarcescibile Oprah Winfrey, oltre alla poetessa Amanda Gorman e ad alcuni repubblicani dissidenti nei confronti di un partito che non sentono più loro; insomma, l’America com’è e come potrebbe diventare domani, quando i bianchi saranno minoranza e la convivenza fra le varie etnie sara più complicata ma, proprio per questo, ancora più affascinante: questo si è visto nella capitale dell’Illinois e senz’altro ci ha fatto piacere. Per non parlare, poi, della gioia, della felicità, del senso di rinascita e, come detto, di autentica resurrezione che si respirava ovunque, dopo aver visto gli spettri e aver temuto di dover affogare nella tristezza e nello sconforto: questo è l’altro messaggio cardine che giunge dalla più americana delle città, patria d’adozione di un’icona nazionale come Michael Jordan, che proprio in quel palazzetto ha scritto pagine di storia della pallacanestro mondiale, e di un romanziere del calibro di Saul Bellow nonché emblema della triste scuola di economisti che, con Friedman e soci, ha purtroppo egemonizzato un lungo periodo della vicenda globale, smantellando le conquiste compiute nei “Trenta gloriosi” grazie alle sagge ricette keynesiane. Chicago, dicevamo, la città da cui è partita la sfida di Hillary Clinton e anche quella di Barack Obama. Chicago, dove la sinistra interna ha dato il meglio di sé, con le coraggiose proposte di Sanders, che hanno messo, ancora una volta, in discussione i capisaldi del capitalismo arrembante, e la maturazione di una Ocasio-Cortez pronta a spiccare il volo verso un futuro che la vedrà naturalmente protagonista sulla scena politica americana. Chicago, tuttavia, reca con sé anche non pochi dubbi e interrogativi. Perché i democratici dello scampato pericolo ci sono sembrati, a tratti, fin troppo sicuri di sé, assereagliati in una cittadella dorata, chiusi nei propri miti e nei propri riti, nei propri totem e nelle proprie certezze, convinti, un po’ come tutta la sinistra occidentale, che il mondo in fondo sia pronto a riappacificarsi con loro, perdonando errori, cedimenti e un trentennio, se non di più, di scelte in perfetta continuità con la peggior destra economica. Non a caso, analizzando i vari interventi, abbiamo avuto l’impressione che solo il pragmatico Tim Walz, governatore del Minnesota, solido esponente del Midwest, di cultura terragna e poco incline ai voli pindarici, abbia inquadrato i problemi e offerto soluzioni praticabili e comprensibili da tutti, mentre gli altri si sono appellati allo spirito, all’anima, all’essenza, al senso profondo dell’essere americani, cercando di convincere innanzirutto se stessi e poi i presenti e l’elettorato in generale che Trump sia solo un brutto sogno, un’anomalia, una parentesi, ahinoi ignari dell’insegnamento gobettiano, secondo cui, quando si profilano all’orizzonte mostri del genere, è perché la società è pronta ad accoglierli. Dunque, non di una parentesi si tratta ma dell'”autobiografia della Nazione”, del ritratto di un’America reduce da troppe sconfitte, troppe disillusioni, troppi colpi inferti al suo proverbiale sogno e ormai abitata da troppi ultimi che non hanno avuto riscatto, troppi studenti che non sono riusciti a estinguere i debiti contratti per frequentare l’università, troppi operai ed esponenti della classe media che non sono stati in grado di elevare la propria condizione e troppi illusi che sono rimasti delusi, sentendosi traditi e rifugiandosi nella scelta più comoda e, al contempo, piu tragica: esibire plasticamente la propria furia. Il voto del 2016, infatti, altro non è stato che un corale “Muoia Sansone con tutti i filistei!”. Ci si può appellare al populismo quanto si vuole, ma non di solo populismo si tratta bensì, soprattutto, di una rivolta delle viscere, delle periferie abbandonate a se stesse, dei bianchi ignoranti maltrattati dalla modernità, dei dannati della globalizzazione, degli sconfitti in generale che hanno voluto far bere l’amaro calice a chi, con troppa superbia, presunzione e arroganza, ostentava davanti a loro le proprie conquiste, vantandosi per una superiorità oramai inscalfibile.
Al che, in questo rimpallo fra vicende italiane e vicende americane, ci torna in mente una reazione sarcastica di Franco Fortini di fronte a un appello di alcuni fra i principali intellettuali europei “contro la repressione in Italia”. Si chiese, difatti, Fortini, nel lontano ’77, per quale motivo tutti questi appelli fossero firmati sempre da intellò e fra di essi non ci fosse mai almeno un tramviere. Gli intellò avevano ragione, Fortini no, ma i primi non seppero convincere le masse e il secondo li mise, a modo suo, in guardia. Di lì a poco, non a caso, la reazione padronale, figlia anche delle teorie della già menzionata Scuola di Chicago, fu atroce, conducendoci nel baratro nel quale siamo sprofondati negli ultimi quarant’anni. Perché il film non si ripeta, sarà bene che alle prossime iniziative del rutilante Asinello, rinvigorito dalla versione al femminile di quello che fu l’obamismo nell’ultima stagione di normalità che abbiamo conosciuto, fra tanti divi e super-milionari, compaia anche qualche personaggio simile a “Joe the Plumber”, l’iconico idraulico esibito nel 2008 da McCain (allora candidato repubblicano) come quintessenza della middle-class, che stavolta potrebbe fare la differenza. Salvando l’America o ponendo fine alla sua esistenza e, di conseguenza, anche alla nostra.

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