Non ci sono e speriamo non debbano esserci mai i lutti e le distruzioni che accumulano un’immensità di atroci macerie umane e materiali ai confini tra Ucraina e Russia, così come lungo quelli di Israele con la dilaniata Palestina. Tuttavia, nell’attualizzare i termini della drammatica crisi post-elettorale nella terra di Simon Bolivar, va ricordato che in un mondo nel quale le frontiere diventano più che mai linee di conflitto, il Venezuela non costituisce davvero un’eccezione. Non tanto perché nell’annosa disputa con la confinante Guyana sulla sovranità dell’Esequibo (160mila km2 e -ancora! -miliardi di barili di petrolio) solo pochi mesi addietro questo paese ha minacciato di passare alla guerra guerreggiata (un lucroso diversivo per Maduro, che vi ha finora rinunciato per la gravità dei rischi che comporta). Bensì in quanto rappresenta un sia pur labile e controverso elemento politico e strategico nei precari equilibri continentali. Come predicava Henry Kissinger, cinico ma niente affatto sprovveduto: con maggiore frequenza di quanto non si creda, sono i sassolini a trattenere le valanghe.
Anche Washington, dopo l’intempestivo riconoscimento della probabile e nondimeno non accertata vittoria del candidato dell’opposizione (Edmundo Gonzalez Urrutia, 74 anni), ha rivisto la sua posizione. Il portavoce ufficiale, Mathew Miller, ha chiarito che per il Dipartimento di Stato il riconoscimento non implica un’assunzione automatica della Presidenza. Correzione estemporanea, che d’altra parte aiuta a comprendere anche la sfasatura nei tempi di proposte morte sul nascere come quella di convocare nuove elezioni, avanzata dai presidenti di Brasile e Colombia. Non è soltanto loro, infatti, la preoccupazione di controllare e modulare il livello di scontro con Maduro. Consapevoli che un dissesto oltre misura dei rapporti interamericani, complicherebbe quelli già tesissimi dell’Occidente con Mosca e tutt’altro che fluidi con la Cina. Quest’ultima è grande creditrice di mezz’ America Latina, di cui finanzia imponenti infrastrutture. Ed è a Mosca che Maduro ha trasferito da Lisbona la sede europea della PDVSA, la cassaforte del petrolio venezuelano. Si capisce che entrambe sostengano Maduro.
Il persistere dell’imbroglio elettorale sta confermando intanto la sua insostenibilità. Approfondisce la divaricazione interna al chavismo come alleanza politico-sociale: sia nei gruppi di comando, tra favorevoli e contrari all’apertura dell’economia alle privatizzazioni voluta personalmente da Maduro negli ultimi 3 anni; sia nei ceti popolari, che da questa razionalizzazione neo-capitalista si sono visti decurtare i già umili redditi. E’ l’ulteriore impoverimento che ha spinto soprattutto i giovani dei piccoli centri dell’interno e dei quartieri urbani periferici, un tempo roccaforti del chavismo, a combatterlo sulle strade. Subendo una repressione che ha colpito crudelmente migliaia di persone e di cui inutilmente i presidenti Lula e Petro (il messicano Lopez Obrador ha aderito senza tuttavia intervenire nel tentativo di mediazione) hanno chiesto più volte la sospensione, come segno concreto di disponibilità del governo al dialogo. La trattativa non appare come la via maestra che Maduro intende percorrere, comunque non alla luce del sole.
Egli ha scelto di muoversi con un doppio passo, che alterna sottigliezze negoziali ad aperte brutalità. Difficilmente può ignorare che il suo potere, più che mai bisognoso di credibilità internazionale, gli cede sotto i piedi: la violenza gli serve a simulare una prova di dominio (Hannah Arendt). Di cui l’imbroglio elettorale è parte essenziale, senza per altro escludere necessariamente l’ipotesi che abbia qualche fondamento di verità il massiccio hackeraggio lanciato contro il sistema elettronico elettorale -come denunciato dal governo- allo scopo di falsarne i risultati. Allo stesso tempo, Maduro e i suoi fedelissimi (la moglie Cilia Flores, il presidente dell’Assemblea Legislativa, Jorge Rodriguez, Padrino Lopez, ministro della Difesa) hanno persino intensificato i rapporti economico-commerciali con Stati Uniti, Cina, Spagna e Gran Bretagna, trasformandoli in altrettanti canali politico-diplomatici. Dal giorno delle elezioni (29 luglio scorso) hanno aumentato l’export di petrolio verso i porti di Chevron e Repsol. Washington offre amnistie per loro stessi e Maduro, Pechino ulteriori prestiti. Il generale Padrino riceve visite da Mosca. La tragedia venezuelana è agli ultimi atti, però Maduro resiste in scena.