Elezioni in Venezuela e… negli Stati Uniti

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La novità non sta nell’imbroglio elettorale venezuelano, bensì nel pronto uso altrettanto elettorale che con somma disinvoltura questa volta ne hanno fatto gli Stati Uniti di Joe Biden. Nell’America Latina che al netto del suo folclore politico (abitualmente più rimarcato dei fatti stessi dalla pigra osservazione europea e specialmente italiana) ce ne ha fatte vedere d’ogni colore (oscuro, il più delle volte), da tempo non veniva mostrato un intervento diretto e rozzo come l’annuncio unilaterale del titolare degli affari esteri Anthony Blinken. Dopo 4 giorni di ammonimenti sempre più minacciosi alla recalcitrante sfrontatezza di Nicolas Maduro (61), il dipartimento di stato ha respinto la dichiarazione ufficiale della sua conferma a capo di stato, per riconoscere invece formalmente la vittoria nelle urne dell’avversario, il candidato della destra ed ex ambasciatore Edmundo Gonzales Urrutia (74). Una iniziativa clamorosa, ma in sé e per sé fine a se stessa, poiché le sanzioni contro il regime chavista non hanno finora fatto ravvedere nessuno e oltre queste per le vie spicce c’è il golpe militar (con relative conseguenze).

 

Non è necessaria nessuna malizia nel vedere soprattutto opportunismo, in questo improvviso e improvvido ritorno d’un atteggiamento politico che rievoca i tempi in cui da Washington guardavano al subcontinente come al proprio patio trasero, il cortile di casa in cui fare e disfare a piacimento. Tanto più che fino al giorno prima la Casa Bianca ha mantenuto i contatti convenuti nella telefonata di Lula a Biden all’indomani del voto venezuelano, in cui i due presidenti avevano stabilito di procedere con cauta ancorchè irremovibile fermezza. Tanto nella capitale statunitense quanto a Brasilia, Città del Messico e Bogotà girano commenti che attribuiscono a certi consiglieri politici di Biden in contrasto con altri lo scarto a muso duro. Che anche secondo illazioni giornalistiche avrebbe prevalso per effetto dell’euforia suscitata in campo democratico dal clamoroso, storico scambio di prigionieri tra Russia e Stati Uniti e suoi alleati. Questo dovrebbe far guadagnare alla candidata Kamala Harris simpatie sul versante radical-pacifista dello spettro elettorale, così come lo schiaffo a Maduro (e l’irrigidimento sugli immigrati) tra i conservatori meno estremi.

 

“Prove soverchianti dimostrano che la maggioranza degli elettori ha votato per il candidato dell’opposizione, Edmundo Gonzales Urrutia…”, ha affermato Blinken. Riferendosi alle fotocopie di schede depositate nelle urne, che in quantità rilevante sebbene imprecisata, elettori di Gonzales Urrutia  hanno poi fatto arrivare alla leader dell’opposizione, Maria Carina Machado. L’invito al presidente venezuelano, pertanto, è perentorio: procedere senz’altro nella transizione dei poteri. Davvero il segretario di Stato ritiene che la sua prescrizione verrà pedissequamente osservata a Caracas? Davvero Biden è convinto con questa imposizione di aver favorito la corsa alla presidenza della sua Vice? Oppure -come qualcuno sospetta- conta sul duplice gioco del poliziotto cattivo e di quello buono, lasciando a Lula, Petro e Lopez Obrador quest’ultimo ruolo? I tre presidenti criticano la svolta di Biden, risoluti a negoziare una via d’uscita che comunque escluda -salvo l’imprevisto d’una documentazione davvero ineccepibile- il riconoscimento della pretesa vittoria elettorale di Maduro. Il prezzo d’un suo arroccamento, sarebbe un definitivo isolamento del regime chavista.

 

 


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