Don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, è ricordato oggi come una delle vittime della violenza fascista durante il periodo turbolento dell’ascesa al potere del fascismo in Italia. La sua morte, avvenuta il 23 agosto 1923, è emblematica dell’intolleranza e della brutalità dello squadrismo fascista, nonché del coinvolgimento diretto di figure di spicco come Italo Balbo.
Don Minzoni era noto per la sua ferma opposizione al fascismo, una posizione che lo rese un bersaglio delle squadre fasciste locali. Dopo l’assassinio del sindacalista socialista Natale Gaiba nel maggio 1921 ad Argenta, don Minzoni fu l’unica voce a esprimere pubblicamente l’orrore e l’indignazione di una cittadinanza altrimenti intimidita. Questo atto di coraggio civico lo rese immediatamente un simbolo della resistenza al fascismo, ma anche un bersaglio pericoloso per le squadracce fasciste.
La sera del 23 agosto 1923, due uomini lo attaccarono alle spalle mentre camminava per strada con un amico. Un violento colpo di bastone alla testa gli sfondò il cranio, causandone la morte poco dopo. Il ruolo di Italo Balbo in questo assassinio è particolarmente significativo. Balbo, che all’epoca era uno dei principali organizzatori dello squadrismo fascista in Emilia-Romagna, è stato indicato come colui che fornì le istruzioni precise per l’omicidio, specificando perfino l’uso di un bastone come arma del delitto.
L’omicidio di don Minzoni non fu soltanto il risultato dell’odio e della violenza delle squadre fasciste locali, ma fu anche facilitato dall’isolamento del sacerdote da parte dei vertici cattolici locali, che in gran parte si erano allineati con il fascismo nascente. Il vescovo di Ravenna, Antonio Lega, per esempio, non ritenne nemmeno necessario presiedere ai funerali di Minzoni, un segnale chiaro del clima di complicità e acquiescenza verso il regime che stava prendendo piede anche tra le alte sfere ecclesiastiche.
Nonostante l’evidenza del coinvolgimento di Balbo e degli squadristi locali, l’inchiesta giudiziaria sull’assassinio di don Minzoni non portò a risultati concreti. Il caso venne riaperto solo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924, un evento che provocò una crisi profonda nel governo fascista e diede nuovo coraggio alla stampa antifascista. Fu in questo contesto che giornali come “La Voce Repubblicana” e “Il Popolo” di Giuseppe Donati riportarono alla ribalta il caso Minzoni, accusando apertamente Balbo e i fascisti locali.
Tuttavia, con il rafforzamento del regime e l’introduzione delle leggi fascistissime, il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati, inclusi i mandanti e gli esecutori dell’omicidio, che erano stati chiaramente identificati come membri dello squadrismo locale. Solo nel 1947, con la caduta del fascismo, i responsabili furono condannati per omicidio preterintenzionale, ma vennero subito scarcerati grazie a una sopravvenuta amnistia.
L’omicidio di don Giovanni Minzoni rappresenta un episodio emblematico della brutalità e dell’impunità del fascismo nascente in Italia. Dimostra non solo la violenza delle squadre fasciste, ma anche la complicità e la connivenza delle istituzioni locali e nazionali, inclusi settori della Chiesa cattolica, nel permettere e talvolta facilitare tali atti. La sua morte rimane un monito delle conseguenze della violenza politica e della repressione del dissenso in un regime totalitario.
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