Forse è difficile far comprendere a lettrici e lettori più giovani cosa sia stato quel periodo. E’ difficile perché oggi viviamo in un contesto di cupezza globale, quasi privi di speranze, avendo rinunciato già da tempo ai sogni ed essendoci rifugiati nelle passioni tristi. Eppure quel periodo c’è stato, ed è stato bellissimo. Anni Cinquanta, il mondo voleva lasciarsi definitivamente alle spalle gli orrori della guerra, dilagava la voglia di vivere e fiorivano le arti. In Italia, assistevamo all’epoca aurea del cinema, con i vari Fellini, Rossellini, Germi, De Sica, Visconti e via elencando a mettere in luce gli aspetti più tristi del nostro Paese, descrivendolo nella sua essenza più vera dopo vent’anni di menzogne e propaganda fascista. Oltreoceano, invece, il racconto era affidato a quei cineasti che poi, in alcuni casi, sarebbero stati oggetto delle sgradevoli attenzioni, per usare un eufemismo, del fanatico senatore repubblicano Joseph McCarthy, in quanto accusati di simpatie comuniste. Uno di essi fu Elia Kazan, regista di capolavori come “Un tram che si chiama Desiderio”, tratto dal romanzo di Tennessee Williams, e “Fronte del porto”, il cui protagonista, in entrambi i casi, era un giovane attore nato a Omaha, nel Nebraska, di nome Marlon Brando. Ebbene, quest’anno si festeggia un secolo dalla nascita e si ricordano i vent’anni dalla scomparsa di una delle icone del cinema mondiale. Inutile sottolineare i film che ha interpretato: tutte pellicole passate alla storia, da “Il Padrino” ad “Apocalypse Now”, senza dimenticare “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci. Inutile, dicevamo, perché Brando non è stato solo un attore: è stato il volto, lo sguardo, il senso stesso del grande schermo in un secolo che si è saputo raccontare come nessun altro. Ha vissuto una vita intensa e non priva di amarezze, personali e familiari, spegnendosi all’età di ottant’anni al termine di un percorso caratterizzato dalla ribellione, dalla grandezza, da una discreta dose di spacconaggine e da una profondità di pensiero fuori dal comune. Non a caso, oggi è considerato un mito immortale.
Tornando al nostro Paese, oltre al neorealismo e all’onirismo felliniano, si affermò in quegli anni anche la grande commedia all’italiana che, fra gli altri, lanciò nel mondo dello spettacolo un poliedrico ragazzo pugliese di nome Domenico Modugno che, di lì a poco, sarebbe diventato un simbolo nazionale, vincendo Sanremo con “Nel blu dipinto di blu”, la canzone che più di ogni altra ha incarnato il periodo del boom econonico, con quelle braccia levate verso il cielo, quell’energia, quell’ottimismo comunicato con la voce e con il corpo e quello sguardo rivolto al futuro che diedero il via a una delle stagioni più significative della nostra storia. Probabilmente è questa una delle chiavi del successo di Modugno, scomparso a soli sessantasei anni il 6 agosto del ’94, dopo averci regalato canzoni memorabili ma, soprattutto, dopo essere stato l’emblema del nostro sconfinato desiderio di rinascere. Trent’anni dopo, al dolore per la perdita s’è sommata la nostalgia. Perché, in fondo, quell’Italietta ingenua, in cui ironia e dolore, speranza e tormento, sogno e disperazione si prendevano per mano, ci manca da morire. Proprio come ci manca quell’America autocritica che sapeva fare i conti con se stessa, mettersi a nudo e guardarsi allo specchio, senza affidarsi a pericolosi illusionisti animati unicamente da ferocia e sete di vendetta.
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