Ventinove anni dopo il genocidio di Srebrenica, continua il difficile percorso di elaborazione e assunzione di responsabilità per quanto accaduto allora: uno sforzo reso ancora più urgente dal “virus della negazione” che ha colpito le società dei Balcani e non solo.
Alma Mustafić aveva 14 anni quando nel luglio 1995 è stato perpetrato il genocidio a Srebrenica per mano delle truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić, nonostante la cittadina della Bosnia orientale fosse stata dichiarata “zona protetta” con la Risoluzione 819 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dall’aprile 1993. Sopravvissuta, si è rifugiata in Olanda con la madre e il fratellino, dove vive tutt’oggi.
Con i familiari di altri tre uccisi, dal 2008 si è battuta per ottenere giustizia per suo padre Rizo Mustafić, elettricista impiegato dal battaglione olandese di stanza a Srebrenica, e mandato a morire insieme a decine di uomini il 13 luglio 1995. Nel 2011 la Corte d’appello dell’Aja ha emesso una sentenza di condanna nei confronti dello stato olandese, perché i peacekeeper del Dutchbat non hanno impedito il massacro di 8mila ragazzi e uomini. La battaglia di Alma è stata importante, perché ha aperto la possibilità alle famiglie di altri 350 uomini che si erano rifugiati nella base ONU, di fatto consegnati a Mladić dai caschi blu, di intentare un procedimento penale. In questo caso, il risultato è stato però amaro: la sentenza di condanna di primo grado è stata poi ridimensionata dalla Corte suprema nel 2019.
“Pensavo che la sentenza su mio padre avrebbe inciso sulla conoscenza, in Olanda, di ciò che è accaduto nel 1995”, ha raccontato Alma ad Al Jazeera Balkans , “ma non è accaduto”. Ha deciso quindi di impegnarsi nella promozione della memoria di ciò che accadde: “Perché Srebrenica è una responsabilità europea e parte della nostra storia”. Tra le sue iniziative, la realizzazione di una testimonianza storico-teatrale che ha fatto il giro dell’Olanda: “Dangerous Names ” diretto da Boy Jonkergouw in cui Alma e Raymond Braat, allora casco blu del Dutchbat a Srebrenica, impersonano se stessi. Un lavoro toccante di confronto con dolore e trauma, a cui è seguito il documentario “You play my father ”, proiettato ieri nell’ambito del 29° programma di commemorazione a Srebrenica.
Commemorazione e memoria
Dall’11 luglio del 2004, presso il centro Memoriale di Srebrenica-Potočari inaugurato nel 2003 nei pressi di quella che nel 1995 era la base dei caschi blu, ogni anno si tumulano i resti di vittime ritrovati nelle fosse comuni e riconosciuti con l’analisi del DNA. Ieri pomeriggio sono arrivati a Potočari 14 tabut (piccole bare) di vittime i cui familiari hanno autorizzato la tumulazione.
Sono ancora un migliaio, tra le ufficiali 8372, le vittime del genocidio che non hanno una tomba. Alcuni familiari scelgono di aspettare anche anni, nella speranza di ricostruire il più possibile gli scheletri dei loro cari allora occultati in fosse comuni primarie, secondarie, terziarie… e di cui ancora non si conosce l’ubicazione. Mentre per altri o non si è trovato alcun resto, oppure giacciono senza un nome nei centri di identificazione.
Tra chi oggi viene sepolto c’è un minorenne: Beriz (Omera) Mujić, nato a Zvornik nel 1978. I resti sono stati trovati l’anno scorso, 28 anni dopo la sua uccisione a Sućeska, pochi chilometri da Srebrenica. Troverà “pace” accanto al fratello Hazim, inumato nel 2013. E ci sono due fratelli, Hasib e Ćamil Efendić, nati rispettivamente nel 1931 e nel 1928, i cui resti sono stati trovati sparsi in fosse comuni a Kula e Potočari nel 2011 e nel 2006. Le loro tombe si aggiungeranno a quella del terzo fratello Edhem, sepolto nel 2007.
Nomi e storie che presso il Memoriale si tengono in vita con ricerche, visite studio, convegni, mostre, un archivio documentale. Ad esempio, con la Scuola internazionale estiva per giovani, organizzata dal Post-Conflict Research Center , che si dedica alla promozione di una cultura di pace e alla prevenzione dei conflitti violenti nei Balcani occidentali.
E, quest’anno, la prima edizione della Summer school “Genocide Studies”. Per una settima, 25 studenti provenienti da 18 paesi – di facoltà di scienze sociali, storia, diritto, politica internazionale, diritti umani e giornalismo – si sono confrontati con chi qui lavora. Ad esempio, con le ricercatrici Merima Mujičić, Zenaida Hodžić e Mirsada Mustafić dell’archivio del Museo della memoria inaugurato nel 2021, e con chi coordina il corposo progetto “Oral History. Lives behind the field of death ” che finora conta 600 video-testimonianze di sopravvissuti.
Un lavoro di documentazione immenso, che nel 2022 ha visto anche l’apertura dell’archivio virtuale “Srebrenica360 ” realizzato in collaborazione con Al Jazeera Balkans e in continuo aggiornamento. Il sito rende disponibili foto, documentari, reportage, interviste, la possibilità di visitare il Memoriale, scorrere la lista delle 8372 vittime, navigare la mappa delle fosse comuni, guardare le testimonianze.
Responsabilità e negazione
“Da due anni sto meglio, ma ero crollato. Stavamo guardando un film sui nazisti e ho detto a mia moglie ‘Vedi quello? Sono stato così anche io, come le SS’… sapevamo che quegli uomini (sarebbero morti)… A lungo ho provato vergogna, desideravo morire. Non posso ridarti tuo padre, Alma, ma dimmi che cosa posso fare per te ora”. Raymond Braat, nel 1995 ventenne casco blu a Srebrenica, entra così in scena sul palco, iniziando il confronto con Alma Mustafić.
Il confronto con il passato è stato tentato anche da altri ex soldati del battaglione olandese. L’organizzazione olandese “PAX for peace ” ha riportato per la prima volta alcuni di loro sul luogo del genocidio nel 2007 e per incontrare associazioni di donne sopravvissute. E in seguito PAX e il Memoriale Kamp Westerbork (nord-est dell’Olanda, che fu campo di transito nazista per deportati nei lager) hanno continuato a sostenere il Memoriale. Persino la costruzione, nel 2017, del Museo del genocidio di Srebrenica “Il fallimento della comunità internazionale ”.
Una comunità internazionale che ha cercato di riconoscere giustizia alle vittime con il Tribunale per crimini di guerra per la ex Jugoslavia, dove Radovan Karadžić e Ratko Mladić, oltre ad altri comandanti di altro grado dell’esercito serbo-bosniaco, sono stati condannati anche per il genocidio. Condanne che, assieme alle sentenze emesse per i crimini perpetrati a Srebrenica dai tribunali locali, colpiscono finora 47 persone per un totale di 700 anni di carcere.
Ci sono voluti 29 anni poi, per arrivare lo scorso 23 maggio all’approvazione della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, come ha scritto il nostro corrispondente Massimo Moratti, istituisce l’11 luglio come giornata di riflessione e commemorazione sul genocidio di Srebrenica oltre ad altri obblighi collegati al crimine di genocidio. Ben nove anni dopo il primo tentativo, in sede di Consiglio di Sicurezza, fallito per il veto della Russia.
Una Risoluzione fortemente osteggiata in Serbia e in Republika Srpska (entità serba della Bosnia Erzegovina), proseguendo nella negazione di qualsiasi responsabilità. Società e autorità che non accettano, o tentano di impedire, ogni forma di confronto con il passato che singoli attivisti e associazioni portano avanti con coraggio da anni. Tra queste, le Donne in Nero (Žene U Crnom Srbija) e l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani (YIHR Srbija) di Belgrado, che hanno previsto due “Giorni in memoria del genocidio di Srebrenica ” con un dibattito e una manifestazione davanti al palazzo del parlamento.
Società civile che nemmeno in Italia è stata a guardare e negli anni si è impegnata nel difficile percorso post-conflitto della Bosnia Erzegovina. Oltre ai partecipanti italiani alla Marcia della Pace, è presente una delegazione di otto persone a nome di ARCI Bolzano. “Siamo qui nel contesto del partenariato tra il Memoriale e ARCI nazionale. In particolare, per il terzo segmento del progetto ‘Srebrenica 2.0 ’, app dedicata al percorso di memoria digitale sui luoghi della storia”, ci racconta Andrea Rizza che accompagna la delegazione, “che prevede la mappatura e la descrizione dei luoghi dei maggiori massacri nell’ambito del genocidio di Srebrenica.” Ma anche, aggiunge, per partecipare alla conferenza internazionale “Empowering through remembrance: upholding intergenerational responsibility” tenutasi ieri e costruire collaborazioni future.
Conferenza aperta dal direttore Memoriale di Potočari, Emir Suljagić, con queste parole: “La parola chiave di questa conferenza è ‘responsabilità’, quella responsabilità che ancora non viene assunta a dovere”. A cui poi sono seguiti gli interventi di importanti rappresentanti della società civile e studiosi, che si sono confrontati sull’importanza della responsabilità intergenerazionale nel preservare la memoria delle atrocità passate e nell’educare le generazioni future a costruire un mondo più giusto e di pace.
Perché per il “virus della negazione”, dal nome della campagna del SENSE – Transitonal Justice Center che ha coinvolto la società civile dei Balcani, non esiste un vaccino. Serve far conoscere le carte processuali, le testimonianze, si deve costruire nelle società uno spazio di confronto ed elaborazione. Perché, ha dichiarato Emir Suljagić commentando la Risoluzione ONU, “non esiste l’idea della riconciliazione senza il confronto con tutti i fatti del passato. Dubito ci riusciremo con questa generazione, ma lavoro per quella futura”.
(da https://www.balcanicaucaso.org/)