Piero Calamandrei, nel libro Elogio dei giudici scritto da un avvocato, narra del figlio di un miliardario che guidava a velocità pazzesca la sua macchina da corsa e che ha preso una curva sfracellando contro il muro un passante che andava per i fatti suoi sul marciapiede.
Il padre corre dal primo avvocato della città. L’essenziale è che il figliolo, che è un po’ vivace ma in fondo un buon ragazzo, non vada in prigione: “avvocato si ricordi che noi non guardiamo a spese”. Infatti l’avvocato si dà da fare per tacitare con un forte indennizzo la famiglia dell’ucciso e ci riesce, ma quel fastidio dell’istruttoria penale continua ad andare avanti per conto suo. Allora il miliardario redarguisce severamente il difensore: “avvocato gliel’ho già detto, questa istruttoria che continua è uno sconcio. Glielo faccia intendere al giudice istruttore. La nostra famiglia non guarda a spese”.
L’avvocato non sa come spiegargli che la giustizia non è una merce in vendita, quel giudice istruttore è una persona perbene. Allora il cliente salta su sdegnato: «ho capito, ho capito, lei non me lo vuol confessare. Abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».
slogan che screditano la giustizia italiana
Sono trascorsi tanti anni dalla pubblicazione del libro ma ben poco è cambiato. In chi può e conta, persiste la tendenza a buttare in politica i problemi giudiziari. La novità è che ciò avviene anche per questioni che riguardano la cosa pubblica, governo locale o centrale compreso, con il corredo di un forte bombardamento mass-mediatico. Così da ottenere uno sterminio della comunicazione e dei contenuti. Meglio ripetere ripetere ripetere un concetto adattato e quindi «comodo», come nella pubblicità commerciale; trapanare i cervelli con l’obiettivo di verità rovesciate o falsità accettate. Poco spazio per analisi, dibattito, confronto. Quindi per decisioni e scelte argomentate e motivate.
E sui magistrati che osano fare il loro dovere, anche nei confronti di chi di un controllo di legalità per sé non vuole neppur sentire parlare, fioccano slogan e bufale intrecciati a insulti e diffamazioni: comunisti (senza più “cripto”) – toghe rosse – politicizzati – giacobini – sostanzialisti – fondamentalisti – militanti – costruttori di teoremi – persecutori – golpisti – responsabili di accanimento giudiziario – cancro da estirpare – maledetti nel Vangelo – mentalmente disturbati – antropologicamente diversi dal resto della razza umana… Un crescendo che culmina con “giustizialisti”, marchio infamante applicato a prescindere per squalificare, delegittimare, mettere fuori gioco i magistrati “troppo” indipendenti e perciò scomodi.
Si noti che ancora pochi anni fa la parola giustizialismo esisteva solo in quanto riferita al peronismo argentino, senza che la giustizia c’entrasse per nulla; finché un bello spirito decise di italianizzarla per indicare un comportamento investigativo-processuale che invece di cercare la verità perseguirebbe obiettivi diversi legati a interessi di parte.
Se la colpa è dello specchio
In sintesi: si sostiene che in questi anni, in Italia, c’è stato un uso politico della giustizia. Questa tesi, a forza di ripeterla ossessivamente, è stata camuffata da verità e si è insinuata nella testa di un numero sempre maggiore di persone.
È un dato di fatto incontrovertibile (non cancellabile da nessuna assoluzione per intervenuta prescrizione o per generosa concessione di una insufficienza di prove) che molti uomini politici hanno avuto a che fare con fatti di corruzione o di collusione con la mafia.
Accusare di «politicizzazione» i magistrati che per obbligo di legge si son trovati ad indagare su questi politici è come attribuire allo specchio la colpa di riflettere il bubbone che deturpi un volto. Chi, invece di curare il bubbone, frantumasse lo specchio, si comporterebbe in modo assurdo. Esattamente come coloro che – invece di elaborare efficaci antidoti contro la corruzione e i perversi rapporti fra mafia e politica – si scagliano contro i magistrati che hanno osato e osano rivelare l’infezione.
Eppure, è proprio quest’assurdità che nel nostro paese è diventata moda. In altre parole, ammesso (solo un attimo e per amor di tesi) che davvero esistano toghe rosse, azzurre, verdi, gialle o nere, va detto che il problema vero non è questo ma un altro: i ladri rubano? i corruttori corrompono? i complici della mafia hanno fatto affari coi boss?
Disinformare, demonizzare i magistrati a partire dai Pm; beatificare gli imputati assolti dimenticando le responsabilità politiche e morali esistenti: così si indebolisce la magistratura e si favorisce la mafia, concedendole spazio e tempo per riorganizzarsi dopo i colpi subiti.
In ogni caso viene messo in discussione il libero e indipendente esercizio della giurisdizione. Che non è un patrimonio della casta dei magistrati. Figuriamoci! È invece un prezioso patrimonio dei cittadini. Nel senso che senza una magistratura indipendente, ci sarà sempre (e ciò avviene con la separazione delle carriere tanto cara al ministro Nordio) qualcuno che in un modo o nell’altro potrà per legge dire al Pm a chi fare la faccia feroce e a chi invece gli occhi dolci. Un pietra tombale, la fine anche solo della speranza di poter avere una giustizia almeno tendenzialmente uguale per tutti e non attenta soprattutto alle «esigenze» di chi può e conta ed è in sintonia col potere politico contingente, non importa ovviamente di che colore.
E se pezzi della politica (senza generalizzare, pezzi: ma pezzi talora consistenti) risultano implicati in casi di corruzione o di malaffare fino alla mafia, lasciare che la politica, con queste presenze, possa influire sull’esercizio della giurisdizione sarebbe un po’ come introdurre la volpe in un pollaio. A dir poco pericoloso.
L’attacco alla giustizia è attacco alle istituzioni e alla serenità di tutti a vantaggio di pochi
In ogni caso, le campagne contro i magistrati non allineati col potere tolgono a tutti serenità e si risolvono di fatto in forme di intimidazione. «Sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria». Così, di nuovo, Piero Calamadrei ripercorrendo la vicenda umana e professionale di Aurelio Sansoni, un giudice che «qualcuno, nei primi tempi del fascismo, chiamava anche il ‘pretore rosso’: e non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare la volontà degli squadristi».
E, più di recente, Alessandro Galante Garrone, quando rileva che «a volte non basta, per un giudice, essere onesto e professionalmente preparato; in certe situazioni storiche, per poter ricercare e affermare la verità, con onestà intellettuale, bisogna essere combattivi e coraggiosi».
All’accusa di uso politico della giustizia segue spesso il corollario del vantaggio che certe forze ne avrebbero tratto, riuscendo a scavalcare o eliminare gli avversari.
Dati alla mano, è facile dimostrare che i processi di “tangentopoli” e “mafiopoli” fin qui svolti sono stati imparziali, vale a dire che gli accertamenti si sono indirizzati verso questo o quell’uomo politico non in base alla casacca indossata ma unicamente in base agli elementi oggettivi volta a volta riscontrabili. Ma i dati non interessano. Prevalgono la propaganda e la calunnia.
Stupisce, per altro, che le forze politiche accusate di essere state indebitamente favorite non pretendano – con fermezza – che si dia un taglio a queste falsità, che si cessi di intossicare ogni dibattito. Non dialogare è sciocco. Ma il dialogo non è dialogo se non c’è vero rispetto dell’interlocutore. I colpi bassi, il ricorso sistematico alla menzogna e all’insulto sono l’antitesi del rispetto. E dialogare con chi non ti rispetta è come suicidarsi.
È come ammettere che nella tesi dell’uso politico della giustizia per fini di parte potrebbe esserci del vero. Mentre è facile dimostrare che questa è semplicemente la tesi di coloro che violano le regole, pretendono che nessuno gliene chieda conto e gettano fango su chi non sta al gioco (magari cercando, ogni tanto, di corrompere qualche giudice).
Per avviare un dialogo costruttivo occorre, prima di tutto, interrompere questo incivile ed inaccettabile andazzo. Altrimenti, sarà la confusione a farla da padrona. Con il rischio di derive dagli esiti fin troppo prevedibili.
La bozza approvata dal c.d.m.
Per completare la nostra riflessione, tornano utili alcuni fatti successi in questi ultimi giorni. Mi riferisco in particolare alla bozza approvata dal Consiglio dei ministri sulla separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici. La premier Meloni e il guardasigilli Nordio hanno fatto a gara per contrabbandare la bozza come una riforma storica o epocale “della giustizia”, mentre si tratta “semplicemente” di una riforma della magistratura con l’obiettivo di far tornare i Pm nella nicchia in cui se ne stavano tranquilli prima di Tangentopoli e Mafiopoli.
La riforma “della giustizia” non c’entra proprio nulla. È sulla durata interminabile dei processi, un’inciviltà che genera denegata giustizia e penalizza i più deboli, che occorre intervenire: altrimenti parlare di riforma della giustizia significa capovolgere la verità nascondendola dietro la propaganda.
In ogni caso, la separazione è un obiettivo del tutto inaccettabile.
Perché un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere l’indipendenza dal potere esecutivo: non esiste, infatti, un tertium dotato di autonomia tra ordine giudiziario ed esecutivo e non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (meno di 3.000 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale.
Questo potere, o è compensato dall’ancoraggio dei suoi titolari alla giurisdizione, oppure viene inesorabilmente risucchiato nella sfera della responsabilità politica finendo per essere subordinato al potere esecutivo.
In altre parole, da un pm-giudice ancorato alla cultura della giurisdizione (elemento di garanzia per tutti), si passerebbe a un pm-superpoliziotto con una cultura diversa.
E di fronte ai misteri dei servizi deviati o ai casi di maltrattamento ad opera di forze di polizia, ad esempio, avere un pubblico ministero-giudice o un pubblico ministero-superpoliziotto potrebbe cambiare di molto le prospettive di indagine.
* Fonte: Rocca
Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi