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Libano, l’altro Medio Oriente

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C’è un mito all’origine del Libano, il mito della montagna. Guardando quelle montagne un gesuita fiammingo, Henry Lammens, si inventa la teoria  che lì abbiano trovato riparo le minoranze perseguitate dall’Islam. Lui non pensa proprio che sia più facile che in quelle montagne si sia trovato riparo dal caldo insopportabile e dall’arsura del deserto. Lì vivono i cristiani, seguaci di San Marone, che non aderendo al credo ufficiale fissato nei concilii del tempo vennero perseguitati dai bizantini, non dai musulmani.  Queste montagne sembrano proprio l’opposto di quel che pensa padre Lammens, alleato dei francesi, ansiosi di trovare una chiave che giustifichi l’invenzione di  uno Stato cristiano: il Libano che va separato dalla Siria musulmana. Ma la storia riserva sorprese, e i cristiani piuttosto che ad un loro ghetto preferiscono dar vita ad uno stato multietnico e multiconfessionale, il Libano che si organizza intorno a una Presidenza della Repubblica assegnata ai maroniti e quella del governo assegnata ai musulmani, o per meglio dire alla loro ricca maggioranza del tempo, cioè i sunniti. Questo è il patto che fonda il paese e che poi si saprà rivedere estendendolo ai dimenticati, gli sciiti, la minoranza dell’Islam, ai quale sarà assegnata la Presidenza della Camera. Il Paese emerge subito come libero e affluente, e ha come epicentro il porto di Beirut: i commercianti  cristiani hanno relazioni speciali con quelli europei, quelli musulmani con i loro colleghi siriani. Ma tutto questo non quadra nel sistema che prevale a Damasco ed al Cairo: sono capitali militari del centralismo statalista e filo-sovietico, che però perdono la sfida economica: i capitali da entrambi gli epicentri arabi fuggono verso Beirut, che diviene negli anni Cinquanta la sede di tutte le banche arabe, che prestano soldi anche all’India, in Lire Libanesi: è nato il polmone finanziario d’Oriente, con la quarta compagnia aerea del mondo.

Forte economicamente, il complesso e plurale Libano è una sfida per il centralismo statalista arabo, soprattutto per quello siriano, che non ne accetta la sovranità. E allo scoppiare della guerra civile, determinata dall’afflusso di guerriglieri palestinesi che si teme alterino la delicatissima bilancia demografica, Damasco si incunea nelle pieghe delle paure libanesi, proteggendo n alcuni casi drammatici e notissimi milizie cristiane. Scoppia la guerra civile che travolge il Paese dei Cedri, come tutti chiamano il Libano. Si vedono distintamente due Paesi: la montagna, con le sue identità ancestrali, e Beirut, città cosmopolita, ma con la sua cintura della miseria dove lo sviluppo economico non regolato ha attirato tantissimi dalle campagne, soprattutto i più poveri, cioè gli sciiti. L’anno della svolta drammatica per il Libano è il 1982, quando Israele invade il Libano, occupando ne il versante meridionale. E’ l’atto di nascita di Hezbollah, il partito di Dio costruito dai pasdaran khomeinisti. Nessuno fa la storia con i “se” ma è di tutta evidenza che senza l’invasione  non ci sarebbe stata Hezbollah, creazione khomeinista dallo scopo evidente: occupare la resistenza armata contro Israele. Quello spazio infatti nel 1982 era appannaggio del Partito Comunista Libanese, l’unica formazione politica nella storia araba non confessionale, non settaria, e che quindi rappresentava una resistenza popolare, intercomunitaria. E’ Hezbollah che lo estirpa per formarvi la sua  milizia confessionale.  Quando nel 1990 gli accordi di pace di Taef mettono fine alla guerra civile, Hezbollah ottiene di essere l’unica milizia autorizzata a rimanere in armi, fino alla vittoria contro l’occupante. Nasce di fatto uno Stato nello Stato. Hezbollah diviene nel corso degli anni la punta di diamante del progetto iraniano: conquistare il Levante con una rete di milizie confessionali che sfruttano l’antica discriminazione degli sciiti per farne la propria avanguardia miliziana. Attraverso l’Iraq e la Siria i pasdaran riempiono di armi Hezbollah, che può colpire Israele senza coinvolgere gli stati “amici”. Va così fino al 2000, l’anno del ritiro israeliano. E’ il trionfo di Hezbollah, che si presenta al mondo arabo come la forza che ha saputo garantire il riscatto rispetto al potente nemico. Ma c’è un piccolo inghippo: la “resistenza non può finire”, deve continuare al di là della questione libanese. E così una piccola frazione di Golan siriano, occupato da Israele, viene ceduto dalla Siria al Libano, e Hezbollah trova la giustificazione per dire che la resistenza non è finita. La lotta continua.

Il sistema Hezbollah però è incompatibile con il ripristino del vecchio sistema libanese, con la sua anima plurale che alla sfida militare preferisce quella economica e questo consente alle forze identitarie, soprattutto cristiane, di invocare una strada analoga anche per sé: basta paese unitario. Facciamo anche noi il nostro cantone, il nostro ghetto cristiano. La crisi ritorna, veemente, profonda. L’assassinio nel 2005 da parte di miliziani di Hezbollah del più amato premier libanese, il sunnita Hariri, devasta il Paese. Miliardario, Hariri è l’uomo che ha ricostruito Beirut, restituito al Libano il suo spazio comune, unitario. Dopo di lui molti suoi interlocutori cristiani, tutti progressisti, vengono assassinati per le strade di Beirut. E’ una carneficina finalizzata a impossessarsi di tutto lo Stato. La guerra siriana sopraggiunge nel 2011 e vede  la milizia khomeinista schierarsi con Assad contro i musulmani siriani in rivolta contro il suo governo clanico, tribale. Le armi del riscatto arabo si girano contro gli arabi, contro i confratelli di Siria,  con terribili stragi, torturati, deportati. E’ la fine di un altro mito arabo, che crea nuove ferite profonde. La distruzione nel 2020 del porto di Beirut   è l’ultimo capitolo di una catastrofe che fa del Libano l’esempio concreto, vivente, dell’altro Medio Oriente, quello impossibile, quello plurale e cosmopolita, che le grandi potenze militari non vogliono, costi quel che costi.

 

 


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