Ha vinto Keir Starmer: si sapeva. Vanno, dunque, in archivio le elezioni piu scontate degli ultimi decenni, almeno per quanto concerne il Regno Unito. I sudditi di Sua Maestà voltano pagina dopo quattordici anni di dominio conservatore, affidandosi a un blairiano fuori tempo massimo, interprete di quel New Labour che se nel ’97 poteva destare un qualche entusiasmo, oggi sembra solo la brutta copia di una ricetta fallimentare e, non a caso, fallita in ogni angolo del globo.
Molti osservatori si sono domandati come mai il Paese sia andato al voto in silenzio, quasi con disperazione, senza rendersi conto, o forse sapendolo benissimo ma non avendo il coraggio di dirlo e di scriverlo, che in realtà non esisteva alcuna alternativa. Nel momento in cui bisogna scegliere fra un uomo ricchissimo, Sunak, che finge di essere un amico del popolo, e un esponente del liberismo di sinistra, che si spaccia per nuovo quando non ha una sola idea diversa da quelle che erano sbagliate già trent’anni fa, è infatti evidente che la passione e la partecipazione collettiva siano ai minimi termini. Se a ciò aggiungiamo l’incognita Farage, ossia il ritorno in scena di uno dei principali artefici della Brexit, fondatore di un partito chiamato Reform UK, il cui scopo è quello di presentarsi come la via britannica al trumpismo, il quadro si fa ancora più fosco. Che fare, allora? Comunque la si pensi, c’è poco da stare allegri. Per quanto ci riguarda, l’unica opzione sul tavolo è un’opposizione intelligente: tanto alla destra illiberale di Farage, che a breve si mangerà i torines, obbligati ad arrendersi alla sua ascesa, come già sta avvenendo in Francia ai repubblicani al cospetto di Marine Le Pen e come potrebbe avvenire in Germania qualora la CDU dovesse cessare di costituire un argine ad Alternative für Deutschland, quanto alla sinistra liberista di Starmer.
Del resto, il tema è enorme e universale: la globalizzazione del post-’89 è naufragata ovunque, generando dapprima l’illusione dell’unilateralismo occidentale a trazione americana e poi la catastrofe del declino collettivo di un universo travolto dai suoi stessi errori. Così, abbiamo avuto il massacro di Genova, la guerra al terrorismo (Afghanistan e Iraq) in seguito agli attentati dell’11 settembre, il collasso della Lehman Brothers, il tracollo di alcune economie europee, prima fra tutte quella greca, e la presa d’atto che l’Europa, sostanzialmente, è poco più che un’espressione geografica. Si sta meglio senza di essa? Non si direbbe, specie se si considera l’instabilità politica cui è andato incontro proprio il Regno Unito dal 2016 in poi. C’è il rischio che imploda? Purtroppo sì, perché non può esistere un insieme di stati tenuti insieme da una promessa di felicità che, finora, ha prodotto solo una moneta supportata da economie diversissime fra loro. In assenza di una politica economica e, soprattutto, di una politica estera comune, di ideologie all’altezza delle sfide del Ventunesimo secolo e di un Parlamento che abbia una funzione effettiva e non un ruolo praticamente esornativo, mentre la Russia rinsalda i legami con la Cina e la Turchia si pone come facilitatore rel dialogo fra tutti coloro che vorrebbero soppiantare l’ordine globale di matrice liberale per dar vita a un nuovo ordine illiberale, non possiamo più chiederci se verrà giu tutto ma quando e con quali conseguenze. Continuare a sottovalutare ciò che sta accadendo in quello che un tempo veniva definito “Terzo mondo”, non rendersi conto che i cosiddetti BRICS hanno raggiunto un’unione d’intenti a noi sconosciuta e non capire che il multipolarismo ormai è nei fatti, significa soltanto accelerare la nostra decadenza. È Starmer il personaggio giusto per porre questi temi alle altre cancellerie del Vecchio Continente? Intriso com’è di “greatness” britannica e blairismo d’antan, diremmo ahinoi di no. L’Inghilterra incarna oggi un ex impero che non ha fatto i conti con la propria fine, coltivando l’insana ambizione di poter tornare indietro di un secolo, in una tragica riproposizione dall’alto di quelle che Bauman ha definito “retrotopie”, ossia invocazioni di una stagione mitica ormai perduta ma nella quale tutto funzionava per il meglio. Una stagione che, naturalmente, non è mai esistita ma che se pure fosse esistita, e nel caso inglese in parte è così, risale all’epoca vittoriana, al massimo al governo di Churchill, mentre oggi è del tutto improponibile, specie dopo la scomparsa dell’ultimo ponte con quell’evo lontanissimo che era rappresentato da Elisabetta II.
Da Starmer ci aspettiamo poco o nulla di buono. Blairismo in politica economica, bellicismo in politica estera, un po’ di pietismo sul tema dei migranti, giusto per distinguersi un minimo da Farage, massima apertura sui diritti civili e, forse, una discreta attenzione ai temi dell’istruzione e dell’ambiente: questo potrebbe essere il suo tratto distintivo. Per il resto, il vuoto. Il rischio, pertanto, è che, dopo aver ottenuto quella che la politologia anglosassone chiama “landslide”, ossia una vittoria a valanga, il nostro non sappia che farsene. O meglio: la utilizzi talmente male, potremmo dire “à la Macron”, da consegnare presto il Regno Unito alla destra di Farage, che, sospinta dal trumpismo arrembante in quel che resta dell’Occidente, determinerebbe il tramonto dell’ex impero e dei frantumi che ne erano rimasti. A meno che la sinistra non trovi il coraggio di affermare un’agenda politica radicalmente alternativa, in grado di fare i conti col passato e di convincere un congruo numero di cittadine e cittadini che non tutto sia ancora perduto. Da questo punto di vista, l’America è in alto mare, l’Inghilterra idem, la Francia ci proverà domenica col Nuovo Fronte Popolare e in Italia il campo progressista è in via di definizione, con non poca strada da compiere e un percorso tutto in salita. Si salvano, forse, Spagna e Portogallo perché da quelle parti il ricordo dei regimi totalitari è ancora fresco e un minimo di coscienza collettiva si è venuta a creare.
2024: un anno destinato a finire nei libri di storia.