La scuola Diaz profuma ancora di memoria. Ci parla di sofferenza, di strazio ma anche del desiderio di gridare, specie in questi giorni, che un altro mondo sia davvero possibile. E ci dice, ventitré anni dopo, che qualcosa è rimasto. Ventitré anni è l’età che aveva Carlo Giuliani il giorno in cui venne assassinato. Era il 20 luglio 2001 e sull’asfalto di piazza Alimonda non è rimasto solo un ragazzo ma un’intera generazione, da allora privata della politica, di spazi di condivisione, di orizzonti, di sguardi collettivi e, più che mai, di speranze. Per questo, nonostante tutto, siamo ancora qui, a testimoniare la nostra passione civile e il nostro impegno, a commuoverci e ad abbracciarci in questo luogo simbolico che le istituzioni hanno troppo presto dimenticato e a guardarci negli occhi, con un anno in più ma una consapevolezza che, in compenso, aumenta, dettata anche dalla disperazione per un presente sempre più inquietante.
Come ogni anno, sono stato alla Diaz. A farci da guida c’era Lorenzo Guadagnucci, collega del Carlino che in quella maledetta notte fra il 21 e il 22 luglio del 2001 era lì e pagò a caro prezzo il suo desiderio di testimoniare come stessero realmente le cose, di osservare da vicino il movimento globale che in quell’inferno venne spezzato via per sempre e di raccontarlo con lo sguardo limpido del cronista e l’entusiasmo del militante alterglobalista che non si arrendeva allora e, meno che mai, si arrende oggi.
Giunti al quarto piano della Diaz, mi sono incaricato personalmente di raccontare la storia di Lena Zühlke, il suo martirio e la sua battaglia, giudiziaria e civica, non solo per la verità e la giustizia in merito alla mattanza subita ma anche per riaffermare il valore di quel mondo alternativo che all’epoca sembrava a portata di mano e oggi sembra essere andato definitivamente perduto. Eppure non è così. Basta venire in piazza Alimonda, vederla gremita come non accadeva da anni e ascoltare le voci di chi ci viene da sempre miste a quelle di chi ci viene per la prima volta per rendersi conto che qualcosa si muove. C’è un desiderio diffusa di buona politica, c’è la volontà di uscire di casa e non fermarsi, come troppe volte è accaduto, c’è il bisogno, avvertito ovunque, di riannodare i fili che due decenni di oblio e di abbandono hanno reciso. Perché Carlo non è più, da tempo, solo il figlio di Haidi e Giuliano: Carlo è nostro figlio, nostro fratello, un nostro amico, un simbolo e un punto di riferimento, l’esempio di una repressione feroce che abbiamo visto accadere molte altre volte in seguito, da Aldrovandi ai recenti fatti di Pisa, sempre diversa ma drammaticamente uguale nelle conseguenze. Anche per questo non ci stancheremo mai di ribadire che se le forze che compongono il cosiddetto “campo progressista” vogliono avere un domani, non possono astenersi dal passare da qui. Perché qui si è assistito alla sconfitta e alla devastazione della nostra Costituzione e, dunque, è da qui che è necessario partire per ricostruire un itinerario di democrazia, in cui la protesta si mescoli con la proposta, la rivendicazione di una diversità radicale si faccia massa critica e l’individualismo ceda il posto alla costruzione dal basso di un’alternativa comune. Urge un discorso politico, urge una coalizione costituzionale, urge ricordarsi che Genova non è solo il G8 ma pure un baluardo della lotta partigiana. Urge, insomma, accantonare ogni sorta di personalismo e ricucire quella ferita, “amara e indelebile”, che permane da allora. Non basta più fermarsi un minuto in silenzio a ricordare Carlo e poi, passate le 17,27, tornare alla vita di prima, perché il mondo di ieri non tornerà: quell’omicidio costituisce uno spartiacque fra due epoche, al pari della Diaz e della caserma di Bolzaneto. Allo stesso modo, non basta venire a chiedere le dimissioni di un discutibile presidente di Regione, se nella battaglia quotidiana non ci si mettono anima, cuore e coraggio.
Un arazzo, realizzato dai ragazzi più in difficoltà e posto all’ingresso della Diaz, subito dopo la palestra, teatro di alcuni dei più biechi pestaggi, riporta una frase di Pertini, il presidente partigiano cui, per ironia della sorte, è intitolata quella scuola: “I giovani non hanno bisogno di sermoni ma di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”. Mai come ora, pertanto, la memoria deve essere divisiva: deve cioè dividere i fascisti dagli anti-fascisti, la democrazia dalle pulsioni autoritarie, chi si riconosce nei principî e nei valori della nostra Carta da chi si ostina a calpestarli (in alcuni casi, non solo in ambito strettamente politico, sono le stesse persone di allora). Lo dobbiamo a Carlo, lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo a questa gente che, in un caldissimo sabato di luglio, ancora una volta, ha deciso di esserci. Il futuro, difatti, non può prescindere dalla dalla conoscenza di ciò che è stato, dalla consapevolezza di non essere soli, dalla certezza di potersi prendere per mano e camminare insieme.
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