Che Giochi saranno? Il nazionalismo, le ambiguità e i “demoni” del Cio. Intervista a Patrick Clastres, storico dello sport, Università di Losanna

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Tra poche ore prenderà il via l’evento globale per eccellenza, i Giochi Olimpici: dal 26 luglio all’11 agosto a Parigi scenderanno in campo 10.475 atleti, di 205 diversi Paesi del mondo, per un giro d’affari complessivo di 16 miliardi. Chi regge i destini di questo mondo con numeri da capogiro? Il Cio-Comitato Olimpico Internazionale, organismo sovranazionale di tipo autoreferenziale, non democratico, i cui membri (106) si succedono per cooptazione. Come è possibile che ciò avvenga?

Abbiamo cercato di spiegare questo paradosso insieme ad uno dei più titolati storici dello sport che ci ha parlato dei calcoli geopolitici che sarebbero alla base delle scelte del Cio e di come lo sport sia uno “degli ultimi luoghi in cui il razzismo si esprime pubblicamente”. E uno degli ultimi luoghi dove, al contrario, “gli atleti non possono esprimere liberamente come gli artisti?”. Gli abbiamo chiesto perché negli stadi i razzisti possono esprimersi mentre agli atleti è vietato farlo. Gli abbiamo chiesto qual è la differenza tra patriottismo e nazionalismo. E anche qualche idea nuova per modernizzare e democratizzare lo sport e l’ideale olimpico. E renderlo più accogliente per la causa dei diritti umani.

Viene da chiedersi chi sia questo Robespierre dell’ordine sportivo costituito. Non sorprenda che si tratti di uno dei massimi storici mondiali dello sport, Patrick Clastres, docente nell’Università di Losanna, città sede del Cio. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente e intervistato.

Professor Clastres, lei recentemente ha scritto che per diventare compatibile con i diritti umani l’olimpismo dovrebbe porre fine ai suoi demoni e diventare, perché no, il mito democratico ed emancipatorio che afferma di essere. Le chiediamo: l’olimpismo vuole davvero “porre fine ai suoi demoni”?

“Il Comitato Olimpico Internazionale è un’organizzazione estremamente conservatrice che affonda le sue radici nelle élite dominanti, alla fine del XIX secolo. Da allora, si è perpetuata cooptando se stessa. Non ci sono elezioni democratiche per eleggere i membri, un po’ come avviene in Vaticano in cui i cardinali stessi si scelgono tra di loro e successivamente eleggono il Papa. Ciò significa che il Cio oggi è composto da 106 persone che provengono da 70 Paesi diversi, mentre il Cio riconosce 206 Comitati olimpici nazionali, quindi ci sono più di 130 nazioni che non sono rappresentate all’interno del Comitato olimpico internazionale. La neutralità del Cio non esiste e le sue radici ideologiche sono estremamente conservatrici, la storia ha dimostrato che i membri del Cio sono stati dalla parte dei regimi autoritari”.

Ci sono stati cambiamenti negli ultimi anni? Qual è la situazione rispetto ai diritti umani?

“Ci sono stati degli sviluppi negli ultimi vent’anni, abbastanza evidenti, con l’ingresso dei democratici liberali, ma non si può dire che all’interno del Cio sia rappresentato l’intero orizzonte politico. L’istituzione si sta evolvendo sotto la pressione dei movimenti di cittadini, con l’integrazione di tematiche più orientate al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, anche se i diritti umani sono stati formalmente inclusi nella Carta Olimpica solo nel 2023. Per quanto riguarda la Francia, terra di libertà, nell’attuale situazione politica, suscita dubbi sulla sua reale capacità di avere un effetto a catena di democratizzazione. Tuttavia la storia dello sport non va letta soltanto in maniera lineare, per fortuna. Perché lo sport si è diffuso tra le masse e non è rimasto un fenomeno di élite. Ha saputo interpretare i valori della pace e della fraternità. Oltre che rappresentare una prospettiva di miglioramento della propria salute. E qui entra in gioco il ruolo svolto dallo sport per tutti, dalle organizzazioni sociali come l’Uisp e dai movimenti per i diritti, che irrompono su un palcoscenico riservato a pochi e ne fanno una opportunità alla portata di tutti, un diritto”.

A quasi 130 anni dalla prima edizione dei Giochi olimpici moderni, tenutasi ad Atene nel 1896, che cosa rimane dell’ideale olimpico di De Coubertin?

“Per quanto riguarda l’ideale olimpico di De Coubertin c’è tutto un sistema leggendario, tutta una mitologia che è stata costruita e che dimentica di situarlo nel suo tempo e nel suo ambiente. Il suo progetto era di pace internazionale, cioè la pace tra le nazioni attraverso lo sport, ma anche un progetto di educazione delle élite del suo tempo. La sua ambizione era quella di creare una nuova élite francese prima, e mondiale poi, essenzialmente occidentale, che fosse in un certo senso quella dei cavalieri del XX secolo, cioè nobili e borghesi plasmati dallo sport e dal fair play e mossi dalla motivazione di diventare i nuovi leader del mondo, cioè i grandi colonizzatori, i leader delle grandi imprese, i grandi diplomatici, i grandi capi di Stato. Pierre de Coubertin non avrebbe mai immaginato che lo sport potesse essere aperto alla gente”.

“Il Cio ha interiorizzato l’idea dell’educazione sportiva per tutti soltanto da circa vent’anni. Sono messaggi molto recenti, sotto la pressione popolare delle organizzazioni sociali che difendono i diritti e le libertà. E così, col tempo, il Cio ha incominciato a mostrare interesse anche per i diritti umani e per l’ambiente, anche se nei fatti i Giochi producono tonnellate di carbonio. Potremmo ritenere che si tratti solo di facciata e che la realtà sia ben lontana da ciò. Prendiamo ad esempio il caso degli atleti olimpici, che non sono mezzi cittadini. Abbiamo ancora a che fare con un’istituzione che mette a tacere gli atleti. Gli atleti, cioè, non sono cittadini come gli altri”.

Professor Clastres, lei parla spesso di nazionalismo e di razzismo come di due fenomeni deteriori dello sport. Perché attecchiscono proprio nello sport?

“Diciamo che lo sport, come spettacolo di massa e televisivo, mette in luce le differenze e quindi nel pubblico, ma anche negli attori in campo, può generare pregiudizi derivati dalla morfologia corporea delle persone. Ovvero se siano alti, bassi, grassi, belli o brutti, secondo i canoni di bellezza forgiati nell’Ottocento. E poi vediamo anche il colore della pelle. E questo genera molto spesso nei commenti del pubblico, ma spesso anche tra i partecipanti, tutta una serie di pregiudizi, perché è facile fare equivalenze tra ciò che vediamo e ciò che comprendiamo. Quindi è facile abbandonarsi a pregiudizi nazionalistici dati dal comportamento delle squadre e pregiudizi razzisti legati all’aspetto fisico, e in particolare dal colore della pelle delle persone. Perché lo sport, nella sua dimensione di confronto, di competizione, esaspera le passioni. Le passioni da stadio, le passioni identitarie e comunitarie, e poi le passioni politiche, anche religiose. Lo stadio è un calderone, in un certo senso, in cui ribollono le emozioni. Di esempi di fraternizzazione nello stadio sappiamo ben poco. Fanno notizia, invece, le rivalità e le tensioni. Lo sport non è solo produttore di pace sociale e di fraternità, richiede un continuo lavoro educativo”.

Quando il nazionalismo si è impossessato dei Giochi olimpici?

“Soltanto dal 1908 hanno fatto il loro ingresso nella storia dei Giochi olimpici le delegazioni nazionali, si incominciavano ad indossare le maglie nazionali, ad ascoltare gli inni e le bandiere inizavano ad accompagnare gli atleti. E questa nazionalizzazione dei Giochi Olimpici, a partire dal 1908, non ha smesso di crescere con i conflitti, i grandi conflitti ideologici del secolo, e poi ovviamente con la cassa di risonanza offerta dai media, prima la radio e poi la televisione. Oggi siamo di fronte a questo impasse ed è probabile che il Cio incominci a pensare di temperare il nazionalismo dei Giochi”.

C’è qualche soluzione possibile per temperare il nazionalismo e i suoi eccessi di violenz e, in alcuni casi, di razzismo?

“Forse potremo continuare a fare le selezioni nazionali, ma probabilmente dovremo pensare di togliere le maglie nazionali durante le competizioni, se il Cio vuole davvero servire la causa della pace. Questo aiuterebbe ad evitare di escludere alcune nazioni. Pensiamo al caso attuale della Russia e della Bielorussia, i cui atleti vorremmo integrare ma allo stesso tempo controllare. Se tutti gli atleti fossero “neutralizzati”, ovvero resi neutrali, senza maglie nazionali, senza bandiere, senza inni, sarebbe molto più semplice. Il che non impedirebbe a ogni Paese di essere orgoglioso delle proprie nazionali. Ma almeno nello spazio olimpico avremmo un esempio di fraternizzazione umana. Il Cio lo prevede nei Giochi Olimpici della Gioventù, dove ci sono squadre contraddistinte da colori, nelle quali i giovani concorrenti di diverse nazionalità sono mischiati tra di loro. E anche la Federazione Internazionale degli Sport Universitari sta cambiando logica. Invece di avere competizioni tra studenti che rappresentano diverse nazionalità, avremo competizioni tra Università. Nelle Università ci sono giovani studenti che vengono da tutto il mondo. Quindi avremmo squadre colorate e ci sarebbero meno sollecitazioni: tutti devono essere orgogliosi della propria patria, ma quando il patriottismo diventa nazionalismo, cioè quando diventa aggressivo, allora si perde l’obiettivo che è comunque quello di servire la pace tra i popoli”.

Qual è la differenza tra patriottismo e nazionalismo?

“Nelle scienze sociali e umane spieghiamo la distinzione in questo modo. Il patriottismo è espressione di orgoglio, di appartenenza ad un Paese, che può essere anche la difesa di questo Paese, se viene attaccato, è la difesa della terra degli antenati, dei patres, in latino. Il nazionalismo presenta aspetti molto più aggressivi, con l’idea di proiettare la propria nazione verso l’esterno per prevalere sul terreno economico, politico o militare. Questa distinzione è assolutamente necessaria perché lo sport è in crescita, e c’è il rischio di passare da un sano patriottismo a un nazionalismo che diventa aggressione verso l’altro e assume forme di xenofobia”.

(Ha collaborato per la traduzione Francesca Spanò)


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