Thomas Matthew Crooks, questo il suo nome: purtroppo passerà alla storia. Si tratta, infatti, del ragazzo di vent’anni, iscritto nell’elenco dei repubblicani, che sabato scorso, a Butler, in Pennsylvania, ha esploso alcuni colpi di fucile all’indirizzo di Donald Trump, mancandolo per un soffio e riuscendo, comunque, a ferirlo a un orecchio prima di essere assassinato dagli agenti dei servizi segreti.
Non entriamo nel merito della vicenda, anche perché non ne sappiamo abbastanza. Per il momento, si rincorrono sospetti e illazioni, si brancola nel buio e la sola certezza è che il tentato omicidio sia avvenuto in seno alla destra americana, la cui estremizzazione costituisce un campanello d’allarme che non può lasciarci indifferenti.
Quel giorno di tre anni fa, a Capitol Hill, è cambiato tutto. Con l’assalto al Campidoglio, la violazione dei luoghi sacri della democrazia e le violenze che ne sono seguite, che lo stesso Trump non solo non ha mai condannato ma le ha, anzi, paragonate ad atti di eroismo, con quello scempio che ha mostrato al mondo la fragilità di un paese in guerra con se stesso, è mutata la percezione globale dell’America. Diciamocelo chiaramente: il “sogno americano” non esiste più da oltre vent’anni, dall’11 settembre 2001, se non da prima, ma adesso siamo entrati proprio nella fase dell’incubo. Gli Stati Uniti non sono più la Nazione egemone, non sono più il gendarme del pianeta, non sono più in grado di esercitare il fascino di un tempo, e senza narrazione e l’America semplicemente non esiste, ridimensionandosi al rango di potenza economica e militare. Non abbastanza per scaldare i cuori e dare un senso alla retorica della “greatness”, che è stata alla base del dominio a stelle e strisce e grazie alla quale l'”American day of life” è penetratao nelle vene dell’Occidente. E qui si dipana un discorso più ampio, relativo alla nostra crisi esistenziale, al nostro invecchiamento demografico, alla nostra sostanziale sconfitta e alla necessità di aprirsi a un nuovo mondo, multipolare e policentrico, che inevitabilmente comporta la rinuncia a una fetta di potere: questioni enormi che vanno al di là del confronto fra due ottuagenari, la cui disfida costituisce la disfatta di ciò che gli americani non possono permettersi di perdere per avere ancora un ruolo nel mondo, ossia la sensazione di essere comunque resilienti. L’attentato di Butler, da questo punto di vista, è la dimostrazione tangibile dell’opposto: un Paese sfinito, giunto all’ultimo giro di giostra, nel quale basta un esaltato per mettere in discussione l’intero sistema, con una solidarietà di facciata e un odio reciproco che scuote i due schieramenti e si materializzerà ancor di più nei prossimi mesi, quando la campagna elettorale entrerà nel vivo fino a trasformarsi in conflitto.
Ricordo che nell’estate del 2015 lessi un saggio di Jacques Attali, intitolato “Breve storia del futuro”: un’opera che all’epoca mi sembrò eccessiva, dato che l’autore preconizzava molti dei disastri cui stiamo assistendo oggi, compresa una svolta autoritaria oltreoceano. Ero io, e adesso ne ho la certezza, a non aver capito che il secolo americano si fosse definitivamente concluso, che la globalizzazione liberista fosse miseramente fallita e che l’unica risposta possibile per scongiurare il disastro fosse un cambiamento radicale di equilibri e posture, accantonando la nostra proverbiale arroganza e aprendoci a un confronto con le potenze emergenti ormai improcrastinabile. Non ne abbiamo la forza, il coraggio, forse nemmeno la saggezza, il che ci pone di fronte a una disfatta epocale, alla fine delle nostre certezze di cartapesta, all’inizio di una stagione all’insegna della ferocia e delle degenerazioni, mentre Russia e Cina, spinte l’una fra le braccia dell’altra, brindano alla nostra incapacità di comprendere il tempo che ci è dato vivere.
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