Volgarità a buon mercato

0 0

“Solo gli stronzi usano parole volgari”, diceva Umberto Eco.  Il quale retoricamente si chiedeva anche: “C’è davvero bisogno di domande retoriche?”.  E si raccomandava sempre: “Metti, le virgole, al posto giusto”.  Ma a me è il discorso sull’uso della parola stronzo e dell’insulto in genere che interessa oggi. Perché mi sono data al turpiloquio io ieri, litigando con il padrone di un altro cane. Perché l’hanno fatto qualche giorno fa in una situazione istituzionale: “Presidente De Luca, sono quella stronza della Meloni, come sta?”. E gli altoparlanti  hanno sparato la parolaccia in piazza del Popolo a Roma al comizio per le Europee di Fratelli d’Italia l’ultimo giorno della campagna elettorale. Dallo stesso palco, a fine giornata, Vittorio Sgarbi chiama capre i  militanti che, allo stesso modo, lo apostrofano: capra! Capra! E tutto questo nella settimana in cui no. Non è stato fatto un Papa nero. Ma il pontefice c’entra perché ha usato il termine froceria: “Qui in Vaticano e in qualche diocesi è tutta una froceria”. Che non è un insulto, per carità. Tra l’altro è un termine geniale coniato sempre da Eco nella sua traduzione degli “Esercizi di stile” di R. Queneau. Ed è una parola che, secondo Vittorio Feltri, ha scandalizzato solo i benpensanti, allietando invece gli italiani. Perché noi, da brava gente mediterranea, amiamo le parolacce da almeno 4000 anni, e proprio non riusciamo a smettere di dirle.

Gli antichi greci imprecavano “per l’aglio”, “per il cane (come me!)” , “per la capra (come Sgarbi!)”. Un poeta come Archiloco, vissuto nel VII secolo a.C. , scriveva poesie chiamate giambi che contenevano anche  parole temo impubblicabili in questa sede. Il filosofo Pitagora (IV sec. a.C.) imprecava con i numeri, in particolare le fonti raccontano che gridasse “Per il 4!”.

E  gli antichi romani. E a Pompei. Antichi romani e pompeiani usavano  tranquillamente, come attestano numerosi graffiti, stercus, mentula (membro maschile), futuere (fottere), meretrix, scortum (sgualdrina). Di alcune parolacce come vedete non ho nemmeno sentito il bisogno di dare la traduzione!  Era un insulto anche chiamare gli italici che si erano opposti ai fondatori dell’Urbe “montani”, “agrestes”, “latrones”, e cioè montanari, rozzi, briganti. Anche sporco sannita era un insulto pesante (il Sannio oggi corrisponde alla zona di Benevento).

Usava le parolacce a Roma Catullo, insospettabile autore dell’”Odi et amo”. Ma che quando odiava, per l’appunto, poteva anche scrivere versi come quelli contenuti nel carme 97, rivolti ad un “Emilio faccia da culo”.   E ne usava in gran quantità, ma a scuola i suoi epigrammi non si traducono mai, Marziale, I sec. d.C.  Termini forti come fututor e pedicator ricorrono, nei suoi versi. E io fingo di aver dimenticato di tradurli! Riporto invece questi, che mi sembrano più presentabili: “Tu hai le gambe irte di peli e il petto irto di setole, il tuo cervello, però, o Pannico, è liscio” (Epigrammata II, 36). Quanto ho assimilato a fondo la lezione degli antichi, mi sto rendendo conto. Anche se poi io non amo il gesto del dito medio insultante, segno fallico nato  nel Mediterraneo nel 423 a.C., anno in cui Aristofane scrisse “Le nuvole”. Non condivido l’impiego del linguaggio pulcinellesco dei nostri politici, che se ne servono solo per dissimulare.  Mi sto infatti rendendo conto che l’insulto non è soltanto un qualcosa di  colorito e saporito. L’insulto può anche essere significativo. Perché io sto pensando all’insulto che castiga la stupidità, che non tradisce l’intelligenza. Penso all’insulto che, in maniera originale, mette una distanza invalicabile tra sé e l’oggetto del disprezzo.  Penso che davanti alla dabbenaggine e all’irresponsabilità sia umano rinunciare alla lingua ordinaria e ricorrere a un turpiloquio cosciente di sé. E Riscoprirsi malmostosi.  E’ così umano questo tipo di sentimento che persino San Francesco diceva le parolacce. Nel capitolo 29  dei “Fioretti” Francesco infatti  consigliò a frate Rufino di minacciare il diavolo con queste parole: “ Apri la bocca, mo’ vi ti caco”. E nella basilica di San Clemente a Roma la prima testimonianza scritta in volgare italiano, dell’XI secolo d. C. , è proprio una parolaccia: “Fili de le pute, traite”. La nostra letteratura inizia così.

(Nella foto Vittorio Sgarbi che da sempre non si risparmia in parolacce)


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21