Troisi e i suoi fratelli

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Lo ricorderemo sempre con il volto scavato, mentre indossa quella tristezza che lo ha reso celebre, acuita dalla malattia e dal senso della fine imminente. Trent’anni senza Massimo Troisi sono un’eternità. Il suo ultimo capolavoro, “Il Postino”, tratto da un memorabile romanzo di Antonio Skármeta e ispirato alla vera storia dell’esilio di Neruda in Italia, lo ha consacrato alla leggenda. Non che prima non stessimo parlando di un gigante, non che “Ricomincio da tre” o “Non ci resta che piangere” non fossero film che valgono una carriera, ma nei panni del postino, confidente di uno dei più grandi poeti della storia dell’umanità, l’istrione napoletano ha superato se stesso. Non interpretava quel personaggio: lo era. Raramente, abbiamo assistito a un’identificazione così totale: una perfezione quasi imbarazzante, una meraviglia che ci è rimasta negli occhi e per la quale non ci stancheremo mai di vedere e rivedere quella pietra miliare del cinema.
Troisi è stato, per usare una metafora cilena, una “rosa di Atacama”: troppo grande la sua magia per non essere effimera. È fiorito in una stagione nella quale ancora si credeva in qualcosa, ci ha inondato di meraviglia, ci ha donato una comicità destinata a restare, ha duettato con Gianni Minà, che ovviamente ne era più che amico, ironizzando sulla sua mitologica agenda nella quale non mancava un numero, e ha chiuso da protagonista, quando ormai avevamo smesso di crederci, al fianco di una giovane Maria Grazia Cucinotta e di un inarrivabile Philippe Noiret. Il suo cuore era già profondamente malato, ma Massimo non si è risparmiato. Alla vita ha preferito l’arte, anche perché per lui non poteva esistere l’una senza l’altra. Ha recitato in condizioni difficilissime, ci ha messo l’anima e quello sguardo dolente ha reso immortale un personaggio già di per sé straordinario. Conserviamo ancora la sua dolcezza, il suo strazio, la sua sete di conoscenza, la sua voglia di scoprire il mondo, imparare, comprendere, amare, la profondità delle sue parole e dei suoi gesti, la lentezza delle sue movenze, il suo parlare strano, singolare e inimitabile, e infine la sconfitta, inesorabile condanna per un uomo e per un’idea che, nonostante tutto, non muore. Un’idea di comunità, di condivisione, di unione d’intenti; l’idea di un mondo più giusto da costruire insieme.
Troisi come il da poco scomparso Philippe Leroy, come Nino Manfredi, Giulietta Masina, Kurt Cobain e altri eccezionali artisti e artiste di cui quest’anno ricorrono importanti anniversari. Troisi e la gioia della recitazione intesa come un gioco (non a caso, in francese recitare, ci teneva a sottolineare Mastroianni, si dice “jouer”, giocare per l’appunto): un gioco serissimo, però, senza vincitori né vinti. Il gioco dell’esistenza, della nascita, della crescita, dell’addio. Il gioco di chi non si arrende al male. Il gioco di un sognatore che non si è rassegnato al destino ma, anzi, lo ha sfidato a viso aperto. E infine se n’è andato, il 4 giugno di trent’anni fa, con la levità con la quale aveva sempre vissuto, grazie alla quale ci ha commosso, emozionato e fatto piangere una volta di più.
Non so, caro Massimo, come reagirai leggendo quest’articolo. Probabilmente, ti basterà una delle tue fantastiche smorfie. Non dirai nulla, non ne avrai bisogno. E nel silenzio, anche da lassù, troverai la forza per ringraziare chi ancora ti pensa, ti rende omaggio e ti vuole sinceramente bene. Grazie per aver fatto capolino su questa Terra e averla resa migliore!

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