In una vibrante sala affrescata di SpazioSette a Roma la presentazione di ‘Come chiedere l’ aumento’ (Fabbri) dell’ economista femminista Azzurra Rinaldi
Perché aderire a un sistema che si basa sullo sfruttamento e sulla reiterazione di dettami patriarcali? Il capitalismo vive anche e soprattutto di sfruttamento produttivo delle donne che non solo lo reggono in piedi ma lo fanno anche gratis.
Su questo non vi sono dubbi: il welfare italiano si regge su tutte le giovani laureate che dopo il primo figlio sono costrette al part time e dopo il secondo figlio in altissima percentuale restano a casa con l’ unica prospettiva di parco giochi e fornelli, scontando quella maternity penalty che sembrerebbe insormontabile per le italiane, tanto che viene persino incentivata e decantata da una certa politica come supremo “servizio” alla “nazione”.
Eppure tenere il canone della femminilità lontano dal denaro non è stato un caso, anzi ha significato tenerle lontane da uno strumento di potere. Perché il denaro è l’unico strumento che abbiamo per diventare e rimanere stabilmente libere.
Si pensi all’ enorme capitale umano che non valorizziamo, quello del 50 per cento della popolazione, perché una volta che mettono al mondo figli, le “mettiamo a riposo”. E dal momento della riproduzione anche per gli uomini il mondo peggiora: il compito di supportare economicamente la famiglia tocca esclusivamente a loro.
I dati sono drammatici: prima della legge Gribaudo sull’ equo compenso per le donne non avevamo neanche i numeri del gender pay gap, una discriminante che si spiega solo con il pregiudizio e lo stereotipo, strumentali alla procrastinazione del patriarcato e alla costante infantilizzazione della donna, vista come perenne essere fragile, insicuro e bisognoso di tutela, anche economica.
Un pregiudizio che colpisce anche le più piccole, basti pensare al dream gap che pesa sulle bambine, tradizionalmente poco incentivate sin dai banchi di scuola a investire nelle materie economico-scientifiche.
Una miopia del sistema che si poggia sul cosiddetto welfare mediterraneo, eppure far uscire le donne di casa vorrebbe dire aumentare il PIL dell’ intero Paese, con un beneficio per la società tutta e il progresso dell’ intera collettività.
Eppure dopo decenni di letteratura consolidata, di dati e analisi degli altri paesi, ancora si fatica a mettere al primo posto il lavoro delle donne, in nome invece di un concetto (dis)valoriale di famiglia che appare rigido e surclassato e che forse non è mai realmente esistito.
Ancora si parla di incentivi alla conciliazione casa-lavoro e si fa tanta, troppa fatica a parlare di condivisione del lavoro domestico e di cura e ancora di più del suo riconoscimento economico e sociale. I dati parlano chiaro: la dipendenza economica e la violenza economica sono strettamente correlate: donne economicamente indipendenti sono donne socialmente emancipata, libere di scegliere criticamente se essere madri o meno, più forti nell’ evitare relazioni tossiche e fuoriuscire dalla violenza. Come ci insegna questo libro necessario, uno “strumento militante” indispensabile a interpretare la contemporaneità e a rovesciare visione e narrazione del lavoro delle donne. Assolutamente da leggere e da rileggere, naturalmente sorseggiando un gin tonic.