Suona un po’ scolastico, quasi un luogo comune, ripetere oggi che la repubblica decisa dagli italiani col voto del 2 giugno 1946 è figlia della Resistenza e dell’antifascismo, oltre che preludio della Costituzione. E’ però un fatto storico incontestabile che fu il «vento del Nord» a travolgere una monarchia screditata e a espungere una dinastia mediocre dalla storia del nostro paese. Nenni l’aveva previsto, suo era lo slogan del «vento del Nord» che avrebbe spazzato via «i resti del vecchio mondo». E infatti pesarono i voti delle province centro-settentrionali a far pendere la bilancia per la scelta repubblicana, con uno scarto, netto ma non clamoroso, di un paio di milioni di voti. Furono 12.718.641 – pari al 54,27%- gli uomini e le donne – che si espressero a favore della repubblica, contro i 10.718.502– pari al 45,73% – che sostennero la monarchia. Lo racconta, con un ricordo pieno di pathos, il ministro dell’interno di allora, il socialista Giuseppe Romita, che nella notte tra il 3 e il 4 giugno, visse ore di «una paura terribile, una sorta di terrore» vedendo delinearsi nei primi dati un significativo vantaggio dei consensi per la monarchia. La spiegazione è nota: malgrado le difficoltà organizzative e logistiche dei seggi e delle prefetture del Sud erano state queste le più rapide nello spoglio delle schede e solerti nel trasmettere i risultati al Viminale. Poi, con l’afflusso dei voti del centro-nord, l’esito si capovolse.
La geografia di quel voto è solo in parte sovrapponibile alla geografia dell’Italia «divisa in due» tra l’autunno del 1943 e la primavera del ‘45: al centro-nord gli orrori dell’occupazione nazista e del fascismo rinato repubblicano, volenteroso complice dell’alleato tedesco, la guerra partigiana e la cospirazione antifascista; al sud la continuità di un Regno e di una dinastia in fuga, ma legittimata dalle forze anglo-americane, con l’apparente normalizzazione della vita sotto il controllo alleato. Non mancarono le eccezioni, ad esempio al nord Padova e Cuneo, dove vinse la monarchia, al sud Latina e Trapani, dove vinse la repubblica. E non conviene enfatizzare troppo l’immagine di un’Italia spaccata in due dal voto: perché il 40 % degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 %dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione: un 20% determinante. Nell’insieme il voto del 2 giugno rispecchiò certo una diversa esperienza storica vissuta nella fase più tragica della guerra, ma anche forze profonde della società italiana tra modernità e conservazione.
Abbiamo imparato che nella storia le rotture e le continuità non sono mai così nette come appaiono ai contemporanei: le eredità del passato. come fiumi carsici, scorrono tenaci sotto la superficie dei mutamenti politico-istituzionali. Dunque anche allora la percezione di una cesura netta fu chiara per chi la visse, ma meno incisiva sui tempi lunghi della trasformazione delle mentalità, dei comportamenti individuali e collettivi.
Tuttavia il significato del voto del 2 giugno resta indubitabilmente quello della resa dei conti con una monarchia divenuta manutengola del fascismo, prona nell’accettare che lo Statuto fosse snaturato da leggi liberticide e razziste, corresponsabile nella conquista sanguinosa di un impero e poi nell’avventura di guerre ingiuste e catastrofiche per gli italiani al fianco del Terzo Reich, fino alla vergogna dell’8 settembre del ’43 e all’abbandono dell’Italia allo sbando. Si sommarono allora la ripulsa per il passato monarchico e fascista e lo slancio verso un futuro democratico. Come scrisse Piero Calamandrei, fu un «miracolo della ragione», perché fondò una repubblica «con la libera scelta del popolo, senza sommosse e senza guerra civile, mentre era ancora sul trono il re».
Nelle testimonianze di allora si ritrova un filo rosso di continuità tra i giorni della Liberazione nell’aprile 1945 e quelli del giugno 1946: si visse un’atmosfera di speranza, di sollievo e di fiducia nel futuro, che, diciamolo, è esperienza inedita ai tempi nostri. Eppure era un’Italia in macerie, piegata dai lutti e in ginocchio per le devastazioni materiali e morali quella che votò per il referendum e per l’Assemblea costituente. Ma è ancora Romita a raccontarlo: «il paese intiero si destò la mattina del 2 giugno con la sensazione di dover vivere una grande giornata. L’affluenza alle urne fu, sin dalle prime ore, serratissima. Sembrava che la gente temesse di non arrivare in tempo, di giungere troppo tardi per dire sì o no alla Monarchia, sì o no alla Repubblica, e per eleggere i propri rappresentanti all’Assemblea Costituente. […] ovunque la stessa impazienza; ovunque lo stesso entusiasmo; ma ovunque anche la stessa calma». La riconquista di un potere di scelta di cui il paese era stato espropriato per 20 anni dal fascismo fu un fattore decisivo per l’altissima affluenza alle urne, pari all’89,09% degli aventi diritto, e fu celebrata dagli italiani come il riconoscimento di una ritrovata dignità collettiva. A incidere in questo sentimento fu la prima partecipazione al voto politico delle donne italiane, 13 milioni delle quali si misero ordinatamente in fila, per esercitare un diritto di cittadinanza che era stato a lungo negato loro. Come scrisse Tina Anselmi «le italiane fin dalle prime elezioni, parteciparono in numero maggiore degli uomini, spazzando via le tante paure di chi temeva che fosse rischioso dare a noi il diritto di voto perché non eravamo sufficientemente emancipate. Non eravamo pronte. Il tempo delle donne è stato sempre un enigma per gli uomini».
Questo consapevolezza nell’affluenza al voto, questo impegno a una partecipazione attiva nel decidere il destino del paese, è un termine di paragone inquietante per la nostra attualità, fatta di diserzione dalle urne e di disaffezione alla politica. Specie pensando all’ultima consultazione politica del 2022 che ha registrato, con soltanto il 63,09% dei votanti, la più bassa affluenza di tutta la storia repubblicana.
Il 2 giugno si votò anche per l’Assemblea Costituente e anche quel voto fu espressione della comune volontà di creare una prospettiva nuova per il paese, archiviando l’esperienza della dittatura fascista. Gli italiani e le italiane di allora non ebbero paura del nuovo, del cosiddetto «salto nel buio» che era il cavallo di battaglia della propaganda filomonarchica e conservatrice. « Paura di che? Del nuovo perché nuovo? Qualunque cosa ci capiti domani non sarà così brutta, così disastrosa, così tragica come ciò che ci è capitato ieri […] Paura del famoso salto nel buio? Lo credano i nostri lettori: il buio non è né nella repubblica, né nella monarchia. Il buio purtroppo è in noi nella nostra ignoranza, o indifferenza, nelle nostre incertezze, nei nostri egoismi di classe […]. Noi non avremo nulla da temere da questa strada se sapremo tenere le mani sulla libertà riconquistata e ci persuaderemo di una cosa sola: che libertà è coscienza e rispetto dei limiti».
Così scriveva Mario Borsa alla vigilia del 2 giugno del ’46, l’indomani sarebbe nata la Repubblica, una, indivisibile, fondata sul lavoro e sui valori dell’antifascismo, affidata al nostro impegno e alle nostre coscienze.
Elisa Signori